Molto bello ed evocativo il titolo. È stato difficile sceglierlo?
Il titolo è nato per suggerimento degli editori. Confesso che in un primo tempo ero perplesso. La parola custodito abbinata ad amore mi faceva pensare ad una sorta di imprigionamento. Ma poi ne ho apprezzato il riferimento teneramente nostalgico. C’è in questo titolo un evidente rimando alla vocazione di Cosimo - la voce narrante del romanzo - una vocazione che ne fa un pericolante angelo custode della memoria. Ho accolto, con piacere, di questo titolo, la dichiarazione d’intenti, il far riferimento ad un amore che non si arrende, neanche ai più devastanti uragani del destino. Un amore che sa proteggere i più delicati desideri di relazione con l’altro, che sa non farsi mai violento, oppressivo o grossolanamente interessato.
Facile esordire nella narrativa? come ha vissuto i vari momenti che hanno portato alla pubblicazione del libro?
Avevo già pubblicato alcuni testi teatrali, alcuni racconti in raccolte collettive. Ma l’esordio di un romanzo è davvero un’altra cosa. L’attesa della pubblicazione ha insieme qualcosa di struggente e qualcosa di euforico. E non manca il timore. Scrivere ed affidare alle stampe quanto si è buttato giù insegna ad essere responsabili. Responsabili di quanto si è pensato, delle parole scelte e delle frasi cancellate, responsabili della storia che hai raccontato, del senso o delle mancanze di senso che si affidano al lettore. Accompagnare, in un testo di una durata consistente qual è quella del romanzo, i tuoi stessi pensieri, i tuo stessi fantasmi sulla soglia del mondo ed affidarli ad altri, sapendo che come non erano interamente tuoi all’inizio così non saranno interamente tuoi alla fine del percorso, rende il primo romanzo davvero un’esperienza ricca di fibrillazione. Ho trovato in Francesco e in Nicola due editori attenti, generosi e curiosi. Il che ha reso il varo di questa navicella di parole, che è il mio primo romanzo, una felicissima avventura.
Scrivendo il libro ha imparato qualcosa di più su se stesso, sulla sua personalità...?
Credo che si scriva, soprattutto, per dar fiato e corposità agli enigmi più indecidibili dell’esistenza. Si scrive perché sentiamo che nel mondo c’è qualche distonia, nel nostro pensare c’è qualche buco, nel nostro esistere qualcosa di irrisolto. Nello scrivere si tesse e si disfa una trama del mondo, si dischiude un amore per il mondo, che ne rintraccia comunque le mancanze e le incongruenze. Lo scrivere, con la doverosa pazienza, affina i pensieri e, con buona probabilità, dà più spazio a quello che nella vita quotidiana, di noi stessi, nascondiamo. Anche a noi stessi. Credo di aver conosciuto, o sarebbe meglio dire ri-conosciuto, nelle pagine del mio romanzo una qualche tendenza meno intimorita alla tenerezza, una più disinvolta disponibilità alla commozione.
Fra i personaggi che costellano il romanzo, c'è qualcuno cui si è maggiormente più affezionato?
In genere chi scrive tende a dire, e a dirsi, che a tutti i personaggi ha cercato di destinare lo stesso affetto. In realtà i personaggi, nel corso della scrittura, sono loro stessi a suggerirti qualcosa di loro, sono loro a trascinare da qualche parte la tua penna, per quanto, ovviamente, sempre all’interno di un piano predisposto. E a opera compiuta ti accorgi che qualcuno ha più di altri ha fatto battere il tuo cuore. Ad opera compiuta, perciò, non posso evitare di confessare il mio debole da una parte per la Signora che di Cosimo si è presa cura e che ha saputo unire amore per il sapere e per l’insegnamento dello stesso con uno scialoso gusto del vivere; dall’altra per Quadria, questo segaligno donchisciotte, che ha costeggiato e spesso attraversato i peggiori baratri dell’esistere. Ma che non ha mai rinunciato all’ipotesi di una vita delicata e piena di attenzioni per il prossimo. Ovvio che a Cosimo deve poi andare un affetto particolare, per essersi fatto attento testimone di vite d’altri.
La sua attività teatrale in un certo qual modo è entrata anch'essa nel libro?
Il teatro ha abbracciato tutta la mia vita. Lo facevano i miei, ho continuato a farlo anch’io. Il teatro entra nelle mie vene, figuriamoci, dunque, se non ha influenzato, e sempre influenzerà, il mio modo di scrivere. Il teatro insegna, tra le tante cose, a guardare nell’animo degli esseri umani più diversi, insegna a cercare di comprendere - comprendere non necessariamente giustificare – a cercare di capire cioè come un altro essere umano, un essere che non sei tu e con il quale a volte non puoi minimamente immedesimarti, abbia potuto compiere un determinato tipo di azioni. Il teatro, talora, ti chiede di dare il tuo corpo a ciò che è più lontano dal tuo spirito, a ciò che persino è immorale o maligno. E gli attori, in genere, proprio in questi ultimi casi, sembrano essere invasi da una particolare euforia. Il teatro, ancora, ti prepara alle apparizioni, si fa luogo cavo e risonante, dove giungono altri esseri che in prima persona raccontano di sé. Ecco, credo, spero, che l’apertura all’estraneo e la disponibilità all’apparizione siano due delle caratteristiche che ho cercato di portare con me nella stesura del romanzo.
L'amore così com'è declinato e concepito nel libro coincide con la sua idea dell'amore?
Ne L’amore e l’occidente Denis de Rougemont diceva che la letteratura occidentale ha una fatale predilezione per l’amore dall’esito tragico. Nel mio romanzo parrebbe che nessuna delle storie raccontate possa aspirare ad un lieto fine. Ma non di pessimismo, si tratta. Credo che la migliore letteratura debba farci provare con intensità ciò che manca agli esseri umani perché la loro vita possa essere lieta. Non ai romanzi spetta suggerire consolazioni, ma ai lettori far sì che il mondo divenga meno distratto ed ingiusto. Per venire con più puntualità alla tua domanda, credo che un po’ tutti ambiremmo ad un amore che sappia coniugare l’attenzione all’altro da sé con la più intensa capacità di gioire anche fisicamente della relazione con l’altro. Ma piacere e incanto, per non divenire roba da canzonetta, devono saper non dimenticare quanto fragile e rischioso, talora opprimente e invadente, può divenire l’amore. Trasformare un incontro casuale in destino, anche dovesse durare un breve giorno: questo è l’inappagabile slancio dell’amore. C’è un brivido di eterno in questo slancio. In tal senso, in un’epoca come la nostra, affannata e convulsa, preda di un godimento compulsivo e consegnatasi all’effimero, l’amore, con la sua scommessa, fragilissima e improbabile, a favore dell’eterno, probabilmente si rivela l’appello a un futuro che non si rassegni alla dimenticanza, alla perdizione e allo svilimento dell’umano. L’amore come rammemorazione di trascendenza, questa forse è l’idea dell’amore in cui posso riconoscermi. Giovanni Zambito.