Aveva una vecchia
bicicletta da uomo, nera.
Di quelle che, sul
manubrio, montavano manopole di plastica dura, talmente sfinite che,
quasi, non erano più avvertibili, le zigrinature che segnavano lo
spazio delle dita.
La vernice era
parecchio scrostata, specialmente sui parafanghi, che montavano una
ulteriore copertura metallica parziale delle ruote, e dei raggi,
d’acciaio leggermente slabbrato, e vibrante, per limitare al
massimo gli schizzi d’acqua sporca, con la pioggia.
Sulla salita che,
da Borgo San Giovanni, dirigeva alla strada di collegamento verso
Marruci di Pizzoli, il signor Guglielmo portava la bicicletta, a
mano, camminandoci a fianco, lentamente, sulla carreggiata opposta, a
quella del proprio senso di marcia.
Almeno due o tre
giorni, ogni settimana, faceva quella strada, con l’idea di
pedalare sino a L’Aquila, se la pioggia, o la neve glielo
consentivano.
Durante la salita,
breve, però, almeno una volta, il signor Guglielmo si voltava sempre
a guardare, indietro, le casette prefabbricate di Borgo San Giovanni.
Una decina di file
di abitazioni, poste trasversalmente rispetto alla strada, appoggiate
sul declivio, e attraversate da stradine interne; orizzontali e
verticali.
Le prime, viste
dall’alto, con l’intonaco color giallo; altre, più in basso, con
l’intonaco esterno rosa antico. Tutte, con un breve tetto spiovente
a tegole, artificiali.
Se non fosse stato
un abitante di Borgo San Giovanni, il signor Guglielmo avrebbe potuto
pensare di trovarsi davanti ai vecchi capannoni di una ordinata
fabbrica inglese dell’800, o agli alloggiamenti della truppa in una
caserma. Come quella di Cividale del Friuli, dove aveva prestato
servizio come alpino, nei primissimi anni ’60 del secolo scorso. E
lì aveva scoperto che proprio ad un friulano, doveva il suo nome di
battesimo: un eroe, per gli italiani, un terrorista traditore, per
gli austriaci che lo impiccarono.
E invece Borgo San
Giovanni era un villaggio di Moduli Abitativi Provvisori, costruito
per gli sfollati dal terremoto del 6 aprile 2009. Ordinato.
Ogni fila di
abitazioni era contornata da un marciapiede che, in realtà, era il
residuo libero della grossa base di cemento armato, su cui i moduli
abitativi erano stati poggiati, e da uno spazio di terra, spesso solo
un piccolo fazzoletto, dove erano piantati fiori o piccoli alberelli,
o dove crescevano solo erbacce ignorate e che nessuno falciava; e poi
la strada, percorribile in un solo senso di marcia. Come se fosse
stata segnata da un ago che, col suo filo, percorresse un cammino
alternato, di sutura. Ora in un verso, ora nell’altro; una
cicatrice d’asfalto, occupata in parte da automobili parcheggiate
sui bordi.
Gli intonaci, erano
graffiati da crepe e sbucciature, che lasciavano intravedere il
cartongesso sottostante, come un vecchio legno, privato, in parte, di
pezzi di corteccia; invisibili però, al signor Guglielmo che
guardava dall’alto, una trentina di metri distante.
Il signor
Guglielmo, abitava lì.
Veniva dall’Aquila.
La sua vera casa,
in via Rocca di Corno, quasi su via XX Settembre, era inagibile,
parzialmente crollata, ed ancora appariva lontano il momento in cui
sarebbe stato possibile decidere se abbatterla e ricostruirla, o
ripararla.
Era vedovo, da
tanto tempo, il signor Guglielmo, e viveva insieme al suo primo
figlio, quasi cinquantenne, divorziato e disoccupato, dopo che il
panificio per il quale lavorava, a causa del terremoto, era stato
chiuso.
Il padrone
dell’azienda aveva fatto immediatamente smontare i forni, anche se
il capannone che ospitava il panificio non era stato affatto
danneggiato dal sisma, e li aveva trasferiti a Borgorose, nel
reatino, senza curarsi minimamente delle persone che lavoravano per
lui, che avevano potuto usufruire solo di un breve periodo di cassa
integrazione, ed erano state poi licenziate.
Anche se, al figlio
del signor Guglielmo, era stato offerto di andare a lavorare nella
nuova sede del panificio a Borgorose, ma a metà stipendio, rispetto
a quello che aveva fin lì percepito.
Così gli raccontò,
quasi piangendo, il figlio Vincenzo, che aveva rifiutato l’offerta,
restando senza lavoro.
Il signor
Guglielmo, quel mattino, guardò in alto, verso la fine della salita,
nel cielo accarezzato da grandi nuvole bianche, che parevano
lentamente sfaldarsi, sotto il vento di inizio marzo, appena sopra la
cima delle montagne di fronte.
Arrivato
all’incrocio, tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto, due
mollette da bucato in legno, e le chiuse sul risvolto dei pantaloni,
all’altezza delle caviglie. Calcò meglio il cappello sulla testa,
e salì sulla sella della bicicletta, iniziando a pedalare.
Si lasciò alle
spalle, con uno sguardo, il Bed & Breakfast aperto da tre o
quattro anni, sempre affollato e pieno di muratori. Italiani e
stranieri. Alloggiati lì per lavorare nei cantieri della
ricostruzione. Lontani da ogni centro cittadino.
Solo un bar, di
fronte. Pieno di slot-machines.
Alla destra del
signor Guglielmo scorreva il piccolo stadio di calcio del paese, e
poi, pedalando in discesa, pezzi di campagna recintata, come
un’infezione crescente, in cui erano affastellati tubi d’acciaio
per le impalcature, mucchi di macerie ricoperte da muschio, bandoni
di latta, in mezzo alle querce ancora secche d’inverno.
E poi il piccolo
cimitero, quasi sull’incrocio della strada che portava verso
L’Aquila.
Il signor Guglielmo
pedalava lentamente, affondando ogni volta la gamba, per dar forza a
tutto il gesto, piegando lievemente il corpo, nel verso della gamba
che scendeva, come un metronomo leggermente sghembo.
Superò l’incrocio,
entrando sulla strada provinciale, stretta, una sola corsia per i due
sensi di marcia, trafficata di auto veloci, lasciandosi alle spalle
la depressione della strada, più in basso, che ospitava lo scheletro
metallico, escrescente e nudo, di una “Casa dello Studente”,
sottoposta a sequestro, edificata subito dopo il sisma del 6 aprile
2009, perché ritenuta abusiva, e poi dissequestrata, e intanto
violata dai ladri, e ancora inutile, pur avendo tranciato la terra
che c’era, una volta, di alberi.
Il signor
Guglielmo, era stato un bidello, al liceo; lì, era diventato “signor
Guglielmo”, e tutti lo chiamavano così, compresi i ragazzi più
scatenati.
Forse per quei suoi
capelli precocemente bianchi, e i baffi, leggermente ricurvi verso
l’alto, sempre ordinatissimi e curati, come in una foto in bianco e
nero della Grande Guerra, e l’aria sempre marziale del suo
atteggiamento - quel suo sbattere i tacchi ogni volta che veniva
chiamato da uno dei professori - che incuteva una istintiva,
divertita, reverenza.
Le auto, sulla
strada, lo sfioravano, facendogli sentire, ad ogni passaggio, uno
sbuffo d’aria viziata di carburante, mentre era concentrato nel
tentativo di far correre la sua ruota anteriore, esattamente sul
disegno della riga bianca, che segnava il margine destro della
carreggiata, nonostante, spesso, fosse interrotta da buche o da
rigonfiamenti dell’asfalto, che, subito, terminava dentro la
campagna senza cura.
Passò il sito
archeologico di Amiternum, chiedendosi, come ogni volta che ci
passava accanto, quanto si estendesse in realtà intorno. Sotto la
terra addormentata.
Chiusa da un
recinto metallico e fragile, si alzava una maestosa costruzione di
mattoncini bianchi, colma di fascino antico. In conflitto con le case
di legno, che montavano antenne televisive satellitari sul tetto,
costruite troppo vicino, o con gli enormi capannoni di cemento della
Scuola Edile, appena edificati.
E altre campagne
consegnate all’abbandono di mattoni, e tegole e bidoni e sacchi di
cemento in piramide, e murate, con il rimorchio di un vecchio camion
lasciato lì a presidiare l’area intorno.
E
l’autodemolizione, alla sua sinistra, con la catasta alta,
gocciolante, di automobili scarnificate, disossate, in equilibrio
l’una sull’altra, senza più colore. Una vela pesante, al vento.
Le occhiaie del parabrezza e dei finestrini laterali vuote, bucate
dal cielo lontano.
Qualche auto
suonava il clacson, dopo averlo oltrepassato. Come una specie di
insulto sguaiato.
Il cartello
indicava l’arrivo a L’Aquila, senza che, però, fossero mai
finite le case, da Pizzoli fino alla rotonda, con la strada che, ora,
portava, a destra, verso la caserma della Guardia di Finanza, oppure
diritta verso l’Ospedale, e, alla sua sinistra, verso l’ingresso
del primo centro commerciale incontrato in città, dopo Cansatessa,
prima di Pettino.
Il Signor
Guglielmo, accostò al bordo destro della strada, vicino alla sede
prefabbricata di una ditta di traslochi, e s’abbassò, per togliere
le mollette dai pantaloni.
Attraversò la
strada, con la bicicletta al fianco, e si diresse, in salita, verso
il centro commerciale.
Alcune vetrate
della libreria erano coperte, dal pavimento fino al soffitto, con
grandi fotografie che riproducevano l’insegna e l’ingresso del
negozio, quando questo era nel centro storico della città, nella
piazzetta poco dietro il Municipio.
Alcuni vetri
riflettevano un gruppo di nuovi palazzi, dall’altro lato della
strada, poco sopra, spaccati dal terremoto, immobili da quasi sette
anni. Una crosta vuota. Recintata di plastica arancione.
Creando un
contrasto visivo che pareva far galleggiare quel luogo dentro un
cielo impossibile.
Il signor Guglielmo
entrò nella libreria, e si diresse verso gli scaffali che
contenevano i classici della letteratura. A sinistra dell’ingresso.
L’odore della
carta stampata era come un fieno non tagliato, da camminare sotto il
sole.
Scelse quattro o
cinque libri. La spesa, più o meno, doveva restare sempre dentro i
cinquanta euro.
Il signor
Guglielmo, era attento, alle sue spese. La pensione doveva bastare
per tutto. Per tutto il mese, per tutti gli anni, prevedendo anche
possibili emergenze.
Compresa la sua
spesa quasi settimanale di libri. Classici, il più delle volte.
L’Odissea, ogni
volta che era possibile, e Il Conte di Montecristo, e Le Tigri di
Mompracem, e Alice nel Paese delle Meraviglie, e Moby Dick.
E, ogni volta,
quando usciva portando con sé i libri appena acquistati, il signor
Guglielmo sentiva le mani vuote. Come se non riuscisse mai a
contenere tutto quello che sognava. Tutto quel che avrebbe voluto
sfiorare. Tutto quello che immaginava di incontrare.
Pensando ai tesori
lasciati nel negozio, e non ai libri che portava via.
Sistemò la busta
dei libri sul manubrio della bicicletta, infilandone i manici sul
lato sinistro. Lasciandola penzolare.
Salì in sella,
dopo aver rimesso le mollette ai pantaloni, e prese a scendere lungo
la strada interna al parcheggio del centro commerciale, in lieve
discesa. Di fronte a lui, le automobili trasversalmente in fila per
uscire dal parcheggio.
E fu allora che non
s’accorse, d’aver preso troppa velocità. E non riuscì a frenare
e fermarsi prima dell’incrocio. La ruota anteriore della bicicletta
andò a sbattere contro la portiera di un’auto ferma in coda, e il
signor Guglielmo non riuscì a tenersi in equilibrio. Cadde a terra.
Sbalzato via dalla bicicletta per l’urto.
Avvertì forte il
dolore, alla spalla sinistra, che sentiva bloccata, immobile, e alla
testa, che gli pareva serrata strettamente.
Sentiva una luce
elettrica, sul bordo degli occhi chiusi, che si riaprivano piano.
Era nel Pronto
Soccorso dell’Ospedale, steso su una barella, con un lenzuolo e una
coperta indosso, accostato al muro di un corridoio.
Suo figlio Vincenzo
era lì. E lo guardava, preoccupato.
Il signor Guglielmo
iniziò ad avvertire lampi di dolore alle gambe, che si
risvegliavano, e al torace. Una smorfia, sulle labbra.
- Papà… come ti
senti? –
- Sono vivo, quindi
bene, no? –
Vincenzo sorrise, e
si girò, per un attimo, guardandosi dietro le spalle, come per
cercare qualcuno. Ma era un gesto che serviva per passarsi
rapidamente la mano sul ciglio dell’occhio, e cancellare l’inizio
di lacrima che voleva uscirne. Senza farsi vedere dal padre.
- Ma che è
successo, che facevi lì? –
- Non lo so bene,
che è successo. Avevo comprato i miei libri, come sempre. –
- Libri? Papà, ma,
a casa, libri non ne abbiamo quasi per niente, che vuol dire. “come
sempre” ? –
Il signor Guglielmo
s’accorse che Vincenzo aveva repentinamente cambiato espressione,
preoccupato, diventando rosso in viso, con gli occhi accigliati,
mentre si guardava intorno come per cercare immediatamente un medico,
o un infermiere, come se immaginasse una manchevolezza sua, uno
sfarfallamento.
Il signor
Guglielmo, mise la mano sul braccio del figlio, come per trattenerlo.
- Vincenzo,
perdonami.
Scusami, se non te
l’ho mai detto prima, ma mi vergognavo di spendere soldi nostri,
che potevano servire, per noi.
Da tanto tempo, io
compro libri.
Poi passo da un
cantiere, e ne lascio uno, appoggiato ad una betoniera magari, senza
farmi vedere; oppure, ne dimentico un altro al tavolino di un bar.
Qualche volta
lascio Madame Bovary tra i banchi di una chiesa. O Michele Strogoff
nella sala d’aspetto della stazione.
E Oliver Twist,
sotto la pensilina di un bus.
E poi, quando
ripasso per quei luoghi, i libri che ho lasciato, non li ritrovo mai.
Allora, penso che è
bello.
Che qualcuno li ha
raccolti. Che una storia ha trovato qualcuno che la faccia rivivere.
Che, per mani che non hanno mai toccato un foglio, ci sia una
sorpresa.
Penso che le
fantasie che ho incontrato nella mia vita, o a scuola, possano ancora
camminare.
Lo so che sono un
po’ scemo, Vincenzo, ma non è colpa della botta. –
Luigi Fiammata