Venerdì
11 marzo esce
“You
and I” (Columbia
e Legacy Recordings),
una
raccolta delle
prime
registrazioni in studio di Jeff Buckley per Columbia Records, 10
brani (cover e brani originali) riscoperti negli archivi Sony Music
che, grazie al suono della sola voce del cantautore americano e della
sua chitarra, ne regalano un ritratto intimo e inedito.
L’album
è già disponibile in preorder su Amazon,
in versione CD e
in versione LP (clicca,
e
in formato digitale su iTunes
(http://smarturl.it/youandi_itunes).
Il
primo singolo estratto da “You
and I”
è disponibile in
limited edition 7" col B-side dell’originale di
Sly
& the Family Stone.
“You
and I” è
un album che racconta la peculiarissima
sensibilità e l’eclettismo di Jeff Buckley, sia nell’incredibile
gusto musicale che nel talento. Le
otto cover dell’album includono "Just
Like a Woman"
di
Bob
Dylan; "Everyday
People"
scritta da Sylvester Stewart e interpretata da Sly & the Family
Stone; "Don't
Let the Sun Catch You Cryin'"
scritta da Joe Green e interpretata da Louis Jordan, Ray Charles e
altri; "Calling
You"
scritta da Bob Telson e interpretata da Jevetta Steele per il
film Bagdad
Café del 1987;
"The
Boy with the Thorn in His Side"
e "I
Know It's Over"
degli Smiths; "Poor
Boy Long Way from Home"
di Booker T. Washington "Bukka" White (da una registrazione
del 1939 di John Lomax) e "Night
Flight"
scritta da John Paul Jones, Jimmy Page, Robert Plant e
interpretata dai Led
Zeppelin.
Ad
impreziosire il disco nelle dieci tracce sono inclusi
due brani originali inediti:
la primissima versione mai pubblicata del suo classico
"Grace"
e
"Dream
of You and I",
un pezzo dall’atmosfera misteriosa e intensa.
Ricorre
proprio in questi giorni l’anniversario dalla sessione nello
studio Shelter
Island Sound di
Steve Addabbo (dal 3 al 5 febbraio 1993) durante la quale vennero
mixate la maggior parte delle tracce raccolte in “You
and I”.
Oltre
ai tradizionali formati CD e LP di “You
and I”,
la Columbia/Legacy
Recordings pubblicherà il singolo “The
Boy With The Thorn In His Side”
cover degli Smiths, in limited edition 7" col B-side “If
You Knew
(Live At Café Sin-e, NYC)” (4:28) [già edito].
INTERVISTA
A STEVE ADDABO
Ho
sentito di lui durante il suo periodo al Sin-E, poi in seguito quando
Steve Berkowitz ed io abbiamo iniziato a lavorare insieme.
PERCHÉ
JEFF È ARRIVATO ALL’EAST VILLAGE?
Era un
posto molto accogliente e in quell’ambiente un musicista poteva
sopravvivere. Gli affitti e i prezzi in generale non erano molto alti
e la zona era piena di locali in cui si poteva suonare. Personalmente
mi sentivo a casa li, poiché con i miei parenti ci eravamo
trasferiti dall’Italia per andare a vivere proprio lì vicino.
CI
POTRESTI DESCRIVERE ST. MARK’S PLACE?
St.
Mark’s place era in pratica un magnete per gli Hippies e la cultura
alternativa. Era la frontiera per le generazioni più giovani, il
posto dove potevi suonare per strada e stare in giro fino alle tre
del mattino. Era pieno di giovani alternativi, un posto dallo spirito
libero.
COM’ERA IL SIN-E?
Era un
posto molto piccolo, con pochi tavoli, un coffeebar in fondo e nessun
palco. Gli artisti suonavano per terra, con un microfono e due
speakers. Attirava molti musicisti perché non si pagava il coperto,
e in più c’erano molte belle storie su Sinead O’Connor, ormai
una leggenda, che attiravano la gente.
A quel
tempo era un posto da tutti i giorni: quando Jeff suonava potevi
trovarci dodici persone, che era un gran numero. Se si esibiva
qualcun altro potevi invece vederlo suonare la sua chitarra in
disparte o girare tra i tavoli.
COM’ERA
QUANDO JEFF SUONAVA AL SIN-E?
Lui
semplicemente si sedeva e suonava. Sapevo che stavo guardando
qualcuno di bravo ma non mi rendevo conto che avrebbe fatto parte
della storia della musica. Inoltre il Sin-e non era così speciale:
nessuna grande illuminazione, nessun palco, chi suonava lo faceva
praticamente in mezzo ai tavoli, nello stesso posto dove tu sedevi.
COM’ERA
JEFF COME ARTISTA E COME CANTANTE?
Era come
un vulcano: quasi sempre tranquillo, ma poi all’improvviso
esplodeva. La sua voce aveva un range ampissimo, suonava la chitarra
benissimo e il suo fraseggio era ottimo: andava da un ritmo dolce e
lento al più duro e veloce, era sorprendente e non si sapeva mai
cosa aspettarsi.
Mi
ricordava un cavallo selvaggio ma gentile, c’era qualcosa di
indomito in lui. Quando venne nel mio studio e ci guardammo negli
occhi percepii un fuoco, non qualcosa che doveva essere domato ma
piuttosto un’indole. Era un’artista molto forte, ma allo stesso
tempo umile e genuino, ti guardava dritto negli occhi e si ricordava
subito il tuo nome.
COM’ERA
REGISTRARE CON JEFF?
Dopo che
firmò con Berkowitz il processo di registrazione fu molto lento.
Fare qualcosa con un artista così diverso era difficile. L’idea
era lasciarlo fare in una situazione che fosse confortevole,
lasciargli suonare ciò che voleva, saltando da un pezzo all’altro.
Volevamo ottenere un repertorio dal quale poi Berkowitz potesse
partire per produrre il disco.
Il punto
era vedere cosa riusciva a fare, e il risultato sono state molte
cover, dei generi più disparati, ma anche molto altro. Durante
queste sessioni non si sapeva cosa scegliere, cosa usare, quale
sarebbe stata l’essenza di questo primo disco. Ho fatto molti primi
dischi con altri artisti e posso dire che si parte sempre da qualcosa
di definito, ma il lavoro di Jeff era quasi un universo espanso.
QUESTE
SESSIONI ERANO SIMILI A CIÒ CHE FACEVA AL SIN-E?
In studio
speravamo di farlo sentire come davanti a una audience per fargli
suonare cosa gli usciva dalla testa, senza direzionarlo in alcun
modo. Lui suonava e anche durante le registrazioni si interrompeva
dicendo che voleva rifare qualcosa o che voleva iniziare roba nuova.
Secondo me è stato un bene per lui passare dal live allo studio
perché li dentro sentiva di poter trovare il suo modo di fare
musica, la sua via.
COM’ERA
SHELTER ISLAND DURANTE LE SESSIONI?
É stata
una registrazione molto semplice: non avevamo un granchè di
strumenti, in studio non c’era un piano acustico, così io avevo
messo a disposizione le mie chitarre e lui aveva portato la sua.
Avevo messo in sala solo due bei microfoni. L’abbiamo semplicemente
registrato live, in tutto quello che voleva fare lui, senza
restrizioni.
CHI HA
DECISO COSA DOVEVA SUONARE JEFF DURANTE LE SESSIONI?
Decideva
tutto lui. Noi guardavamo al catalogo e lui andava a caso dall’una
all’altra, sapeva cosa doveva fare era a suo agio a saltare da una
parte all’altra, non abbiamo mai cercato di organizzare niente al
posto suo. D’altronde quando abbiamo preso questi tre giorni
nessuno sapeva troppo della storia di Jeff, per noi era un ragazzo
sconosciuto e il mio obiettivo e solo metterlo a suo agio. Sapevo che
era figlio di Tim, ma lui non cercava di ricreare niente dal suo
passato e a malapena conosceva il lavoro di suo padre. Fu come
lavorare con un foglio bianco. Le sue dinamiche di composizione, la
sua voce e chitarra erano incredibili, e ci accorgemmo subito della
fortuna che avevamo a lavorare al disco di un personaggio del genere,
anche se non sapevamo come far uscire un album da un repertorio
simile. Uno dei periodi più magici della mia vita.
COM’ERA
REGISTRARE CON JEFF?
Sfortunatamente
sulla cassetta si sentono solo le dieci canzoni del disco, e non
tutto il resto. Le registrazioni arrivano a cinque ore e spero che
prima o poi vengano pubblicate perché potremmo sentire un Jeff molto
rilassato, che scherza, parla del più e del meno, delle persone. C’è
molto di più di dieci canzoni lì dentro.
CHI HA
DECISO COSA DOVEVA SUONARE JEFF DURANTE LE SESSIONI?
Andai a
vedere chi aveva scritto quelle canzoni dopo le sessioni di
registrazione e fondamentalmente erano tutti degli ottimi pezzi,
scoprii che uno era di Bob Telson. Come produttore mi ritengo
ignorante riguardo ai diversi tipi di musica, ma quando sentivi una
canzone suonata da qualcun altro capivi come Jeff la facesse sua,
tanto da sembrare che la sua esecuzione fosse l’unico modo
appropriato di suonarla.
SCRIVEVA
TANTE CANZONI A QUEL TEMPO?
Frank
Sinatra o Elvis Presley non hanno scritto gran parte delle loro
canzoni. Nei primi ‘90, i tempi in cui Jeff suonava, era già
passato il boom del cantautorato degli ’80.
Nei ‘90
non c’era una corrente pop o un formato definito, la maggior parte
erano cover artists, e questa era la pressione più grande su Jeff.
Nonostante questo quando Bob Telson ha scoperto che la sua canzone
era sul disco la ascoltò e disse che era stupenda. Una ulteriore
prova del talento di Jeff.
COME HA
FATTO JEFF BUCKLEY A FINIRE NEL TUO STUDIO?
Ho
incontrato Barkowitz nei ‘90 quando era produttore per la Columbia
e mi coinvolse in alcun progetti. Quando si spostò alla A&R si
ricordò di me per le sessions di Jeff. Lavorando entrambi per una
etichetta non potevamo permetterci di rimanere su un genere solo,
dovevamo diversificare, così ci trovammo per Jeff.
INTERVISTA
A STEVE BERKOWITZ
QUANDO
HAI SENTITO PARLARE PER LA PRIMA VOLTA DI JEFF BUCKLEY?
Ho
sentito parlare di Jeff per la prima volta da Chris Doud dei
Fishbowl, mio collega quando lavoravo alla Columbia. Una volta mi
disse che dovevo assolutamente ascoltare il suo compagno di stanza
cantare e mi diede questa cassetta, che ho ancora, di Jeff che suona
i Led Zeppelin a casa sua. Ascoltandola pensai che il ragazzo sapeva
davvero cantare, e successivamente scoprii che era figlio di Tim
Buckley.
Circa
un anno dopo Hal Willner mi chiamò chiedendomi se avevo delle
registrazioni perché voleva organizzare un tributo a Tim Buckley a
Brooklyn. Io avevo quasi tutte le registrazioni di Tim e sono stato
tanto fortunato da vederlo quando a 19 anni suonava il suo primo
album, così prestai tutte le mie cassette. Purtroppo non fui in
grado di partecipare, e solo dopo venni a sapere che per l’evento
cantò anche Jeff.
Più
tardi ancora lavorai di nuovo con Hal Willner a un tributo a Charles
Mingues. Ci vedevamo e andavamo in giro vicino a St. Mark’s place,
quando un giorno Hal mi mostrò il posto dove suonava il figlio di
Tim. Entrammo in questo piccolo posto chiamato Sin-E, tutto birre e
caffè, e questo ragazzetto stava suonando davanti a quattro persone
e, se mi ricordo bene, la barista era Sinead O’Connor. Era strano
sentire Jeff cantare come un angelo e poi guardare Sinead, che
sembrava un angelo, fare i caffè. È stata una serata magica, e Jeff
era incredibile.
COM’ERA
JEFF QUANDO SUONAVA AL SIN-E?
Le
sue canzoni, e parlo in qualità di musicista, erano diverse da
qualsiasi altra sia per accordi che per vocalità, tipo un’orchestra.
Non potevo credere che questo ragazzo, suonando brani a caso che non
erano nemmeno suoi, fosse in grado di trasformare ogni canzone in
modo da farti sentire tutte le orchestrazioni che lui percepiva. Jeff
non si esibiva, faceva arte. C’era qualcosa nella sua musica, nel
tempo e nelle sue dinamiche che mostrava un’armonia interna
mozzafiato. Pensai: sto realmente sentendo tutto questo? Tutto ciò
sta uscendo davvero da un solo uomo tutto in una volta? La risposta è
si. Cominciai a frequentare il posto il più spesso possibile.
COM’ERA
JEFF QUANDO DIVENNE FAMOSO?
Lavorando
nel marketing devi essere scalpitante, devi fare pressioni per avere
successo con la tua band. Nessuno aveva bisogno di tutto questo per
Jeff. Lui era il suo stesso motore, non c’era nessuno a promuoverlo
e alla fine ha iniziato da solo ad inviare cartoline ad una sua
piccola mailing list, per fare più soldi e acquisire più visibilità
a New York, unico posto in cui suonava. La gente, me compreso,
cominciò a volerlo mettere sotto contratto così, quando lo feci
ascoltare ai miei superiori, questi ebbero la mia stessa reazione.
Andarono da amici, dalla ragazza e da altri musicisti che conoscevano
Jeff perché pensavano di doverlo mettere sotto contratto, e così
fu.
CHI
HA DECISO COSA AVREBBE SUONATO JEFF DURANTE QUESTE SESSIONI?
Fu
chiaro sin da subito che se dovevamo far maturare Jeff facendogli
produrre il miglior album possibile, il modo più efficace era
lasciarlo fare. Era così talentuoso e aveva così tanti modi di
essere, che la parte più difficile per lui - e per me, se fossi
stato il Jeff Buckley 24enne che non ha ancora inciso un disco - era
decidere quale Jeff Buckley essere. Il figlio di Tim? Il ragazzo
della West Coast a cui piaceva il prog-rock? Quello che capiva il
jazz e il blues, le canzoni popolari, l’harem –b, il reggae e
l’hardcore? Che disco avrebbe dovuto fare? Ciò che lo tormentava o
non riusciva a decidere, non saprei, era come doveva essere Jeff
Buckley: poteva scegliere qualsiasi stile, genere, tipo di voce,
l’unica cosa che rimaneva costante era il suo suonare in base a ciò
che sentiva al momento. Mi piace dire che Jeff era un musicista Jazz
perché faceva una cosa un giorno e quello dopo poteva sembrare
completamente diversa. Aveva l’abilità di improvvisare e suonare
ciò che sentiva davvero.
Dopo
aver firmato il contratto però, non avendo né canzoni né demo
proprio a causa di questa situazione che si era creato, Jeff non fu
veloce nel registrare l’album. Tutti lo supportavano perché
facesse un bel disco ma lui non riusciva a decidersi. Alla fine
trovai la soluzione. Gli dissi: perché non andiamo in studio e
registri qualcosa, qualsiasi cosa? Prenotammo lo studio di Steve
Addabo e lì vennero fuori un po’ di canzoni. Lo convinsi a
scegliere 6 o 7 pezzi da quelli registrati, in modo da dare una
direzione al lavoro, e così nacque l’album, in quelle che io
chiamo Addabo sessions. Per tre giorni siamo andati in studio.
All’inizio Jeff non era a suo agio, probabilmente sentiva troppa
pressione, così cercavamo in ogni modo di farlo rilassare, prendendo
il tutto come un gioco. Era il gennaio del ’93 e, sotto contratto
già da due mesi non avevamo comunque niente. Nonostante l’impazienza
non potevamo fare pressione su Jeff, sapevamo che non avrebbe
funzionato, alla fine per fortuna si rilassò e iniziò a suonare
cose da club. Aveva un tale orecchio e il desiderio di internalizzare
la musica e farne un’arte che se gli chiedevi chi erano Sly &
The Family Stone lui ti diceva che sapeva chi erano, ma che non li
aveva mai suonati. Questo perché quando prendeva una canzone non ne
faceva una cover, ma la suonava come la percepiva in quel momento.
Iniziando a caso tirava fuori un capolavoro, per poi magari dire che
non gli piaceva ed abbandonarla, anche se è la stessa che stiamo
ascoltando ora.
La
tragedia nella sua scomparsa prematura è che c’era ancora così
tanta musica che poteva fare, ed è evidente anche dalle Addabo
sessions: ciò che faceva a volte era per la prima e unica volta.
QUALI
SONO LE CANZONI DI MAGGIOR RILEVANZA IN QUESTA SESSIONE?
L’obiettivo
delle Addabo sessions era creare un repertorio di contenuti e canzoni
che Jeff potesse e volesse suonare regolarmente. Quando si lasciò
andare creò You & I, che è una canzone su un suo sogno,
fantastica. Non appena cominciava a parlartene diventava un’opera.
Ciò mi porta a dire che Jeff era davvero il classico compositore: le
sue produzioni non erano canzoni ma toccavano tutti gli aspetti. Modi
di registrazione, suono degli strumenti, vocalità, curava tutto nei
minimi dettagli e sul momento. Aveva la testa del compositore e
creava le sue armonie. Non è che si sedeva dicendo “adesso scrivo
una canzoncina” e You & I è un esempio di tutto questo: una
storia basata su un sogno, che ha differenti tempi dentro di se, che
si espande e diventa una canzone più grande, come altre all’interno
di Grace. Gli ci volle un po’ per completare la sua composizione,
ma era questa la parte affascinante di essere testimone di quei
momenti in cui faceva uscire le sue idee.
Non
è chiaro se dedicasse i suoi lavori a qualcuno o se avesse delle
determinate ragioni per cantare, ciò che è certo è che i suoi
erano principalmente lavori che gli saltavano in mente il giorno
stesso.
Se
fossimo andati 6 o 9 giorni in studio anziché 2 o 3, forse sarebbero
nate altre canzoni a cui poi avrebbe continuato a pensare e, date le
sua abilità pressochè illimitate nell’assimilare qualsiasi genere
di musica, il disco finale sarebbe stato completamente diverso.
Questo era il dna di Jeff, unito alla sua esperienza, ad una sete
inesauribile per ogni tipo di musica e all’abilità di ritradurre
il tutto.
PERCHÈ
JEFF È VENUTO ALL’EAST VILLAGE?
Venne
a New York per essere se stesso e per scoprire cosa poteva fare.
Voleva suonare set infiniti, per esaurire tutta la sua esperienza e
il suo passato e così muovere oltre, campionando nuovi tipi di
musica ed espressioni. Jeff era coinvolto in teatro e recitazione
sperimentale e non era interessato a diventare una pop star, anzi lo
detestava. Era disgustato quando si ritrovava nella top 100 delle
persone più attraenti e faceva di tutto per evitarlo. Voleva che la
musica e l’arte parlassero per lui, e il fatto che fosse bello e
talentuoso, anche se non voleva, era una sua qualità. Venne a New
York per capire quale Jeff Buckley essere e cosa suonare, poiché
fino ad allora aveva improvvisato. Questo disco è proprio questo:
prima c’era My Sweetheart the Drunk, progetto incompleto che doveva
essere il secondo lavoro, poi c’è Grace, l’unico album completo,
e prima ancora il lavoro intimistico per evitare le grandi etichette
e la pubblicità, Sin-E. Era uno sforzo per creare un prima, per far
sentire anche durante i concerti chi era per davvero. Per questo
scopo prima di Sin-E c’era questo disco, Addabo sessions. Era un
serbatoio di cose che voleva suonare e con cui andare contro
all’industria, ma a volte anche una produzione da cui allontanarsi
per concepire qualcosa di nuovo.
COM’ERA
JEFF COME PERSONA?
Era
un’ottima persona, un caro amico, che mi manca ogni giorno. Mi
piace dire che sono stato fortunato a conoscere Jeff e ad avere un
rapporto con lui che si basava sul non detto, sullo sguardo,
sull’intesa. Dal primo giorno siamo stati “music pals”, e
parlare con lui di ogni tipo di musica era magnifico, anche se
avevamo opinioni differenti.
Capiva
la differenza tra una buona canzone e una ottima, e voleva che le sue
fossero grandi quanto poteva esserlo lui. Ogni volta voleva essere
sicuro che il suo pezzo fosse “badass”, parole sue.
Era
diverso con diverse persone. Molti dicono che era un grande amico,
secondo me possedeva una abilità alla Bill Clinton: quando parlavi
con lui sentivi che lui stava davvero parlando con te. Aveva
un’energia incredibile ed era molto divertente, probabilmente
sarebbe piaciuto a persone come Jim Carrey o Robin Williams. Mi
ricordo che nel ’93-94 venne a casa nostra. Dopo aver giocato con
mio figlio di 4 anni ci sedemmo sul divano per vedere un cartone dei
Looney Tunes, e ad un certo punto lui si mise in piedi di fianco alla
tv e iniziò a scimmiottare alla perfezione i personaggi e ogni
singolo suono che usciva dallo schermo. Mio figlio mi chiese perché
Jeff sapeva a memoria queste cose, in non lo sapevo così rimanemmo
seduti a guardarlo. Faceva così con tutto: memorizzava il pezzo per
intero e sapeva esattamente cosa faceva ogni singolo strumento.
Imitava addirittura i musicisti, i personaggi o i movimenti. Aveva
grande passione per la musica, e fortunatamente quando suonava live
non si esibiva ma era davvero lui, saliva sul palco con la sua band e
faceva musica.