"L'essenza di ogni arte risiede nella ricerca di una propria specifica identità creativa ed espressiva". La frase di Franco Olivero - contenuta nel booklet del nuovo disco Zona Franca - è più di una dichiarazione: è un manifesto programmatico che da anni anima e dirige l'attività musicale del compositore piemontese, curioso, poliedrico, sempre a caccia di nuovi stimoli e attivo al crocevia tra le arti. Pubblicato da Ultra Sound Records e distribuito da IRD, Zona Franca è il biglietto da visita ideale per capire la musica polimorfica del flautista di Cuneo, che propone un fascinoso album di difficile catalogazione, creato da un organico anomalo, a cavallo tra jazz, world music, musica colta, con inedite collocazioni strumentali, elementi ambient e improvvisativi.Pubblicato a un decennio di distanza da La sottile fune, Zona Franca riprende alcuni stralci del passato compositivo di Olivero e li rilancia con un approccio nuovo, aperto più che mai all'interazione con altri musicisti. Olivero ha coinvolto nomi del calibro di Paolo Masia, Francesco Bertone, Marco Allocco, Paolo Franciscone e Chiara Rosso in un'operazione dal respiro collettivo, costruita sulla personalità degli strumentisti. Flautista versatile e camaleontico, dagli anni '80 Franco Olivero lavora in diversi contesti - dal teatro alla musicoterapia, dalle colonne sonore alla danza - e questa attitudine multitematica ispira profondamente gli undici brani di Zona Franca. L'album sarà presentato dal vivo in concerto venerdì 15 gennaio 2016 alle ore 21.00, all'Auditorium dell'Annunziata, in via Amedeo Rossi 16 a Cuneo.
Zona Franca
è il tuo nuovo album, un decennio da La
sottile fune.
Che differenze ci sono rispetto al precedente?
In linea di massima
l’aspetto principale che differenzia i due album è la componente
interattiva tra i musicisti. Questo aspetto è sostanzialmente la
conseguenza di un dato più organizzativo che compositivo. La
sottile fune
è un disco maggiormente “costruito” dove ogni singolo brano è
stato elaborato come se avesse una propria individualità. I brani
sono stati registrati in tempi diversi e con una attenzione rivolta
appunto al singolo pezzo come se, da un punto di vista registico, ad
ognuno di essi venisse fornito un diverso contesto scenografico
benchè legato da una unità di percorso e di stile.
In Zona
franca
invece direi che emerge maggiormente un sound di gruppo: il disco è
stato provato e registrato in un “unico respiro” con l’intenzione
di creare, in linea di massima, l’idea di ascoltare un ensemble di
musicisti che dialogano e interagiscono in un tempo verosimilmente
reale.
Mai come in
questo disco c’è un legame tra passato e presente, visto che
vengono a galla tue precedenti esperienze filtrate alla luce
dell’attualità. Qual è la chiave con cui ti sei avvicinato a
questi “frammenti” del passato?
Onestamente da una
paura che a sua volta si è trasformata in necessità: la necessità
di non voler chiudere in un cassetto una serie di frammenti, appunti,
idee sonore che in parte avevano fornito l’impronta sonora di
contesti artistici non solo musicali (piece teatrali, reading, danza
contemporanea...) o che invece sarebbero rimasti sulla carta o sul
software musicale del mio mac se non avessero trovato un contesto
adeguato per essere espresse. Da qui l’idea di rifare un disco dopo
tanto tempo. La fase di ricomposizione di questo materiale è stata
appunto elaborata in questa prospettiva e anche dalla voglia di
condividere i miei brani con stimati musicisti.
Zona Franca
può essere considerato un “manifesto” della tua musicalità, mai
schierata apertamente nel jazz, nella colta o nella world music, ma
situata al crocevia tra queste aree. Vivi questo eclettismo di fondo
come un limite o un’opportunità?
Senz’altro come
un’opportunità e soprattutto una libertà da un punto di vista
prettamente creativo. Per contro però questo che tu definisci
eclettismo e che in modo forse un po’ presuntuoso io definisco
“ricerca stilistica” mi ha sempre creato dei problemi, diciamo
così, di mercato, poiché il risultato è una musica non
etichettabile e quindi difficilmente collocabile.
Tra La
sottile fune
e Zona
Franca
c’è stato il bell’exploit di Chiara Rosso (Elemento
H2O,
del 2013) nel quale hai avuto un ruolo significativo. Quando lavori
per altri artisti, in che modo cambia il tuo approccio alla materia
musicale?
Vivo con immenso
piacere il fatto di poter essere chiamato da altri artisti che
conoscono e ri/conoscono la mia identità allo stesso modo che io
posso riconoscere la loro. Amo poter interagire con progetti
originali dove emerge una peculiare identità espressiva all’interno
della quale anche io possa essere a mio agio. Direi dunque che
sostanzialmente non cambia se gli aspetti descritti sopra sono in
equilibrio.
Chiara Rosso è
una delle figure che arricchiscono Zona
Franca,
insieme a lei troviamo musicisti blasonati come Paolo Franciscone,
Francesco Bertone, Paolo Masia e Marco Allocco. Hanno offerto un
contributo puramente esecutivo o li hai coinvolti anche nella
scrittura e negli arrangiamenti?
Certo, grandi
musicisti e grande vocalist! Più che sull’arrangiamento sono
intervenuti, come già forse ho lasciato intendere, come singole
identità che intervengono con la loro forte personalità su un
progetto organizzato: in sostanza se in Zona
Franca
non ci fossero stati loro ma altri musicisti, il disco non suonerebbe
così.
Flauto,
violoncello, piano e sintetizzatori, contrabbasso e batteria: Zona
Franca
ha un organico piuttosto sui generis…
Beh sì... e
considera questa volta mi sono “tenuto”... Nell’album
precedente in aggiunta c’erano anche flauti etnici (come d’altronde
nel cd di Chiara e in un solo brano di questo album) e altri
strumenti percussivi. In realtà mi piace pensare che l’organico di
questo lavoro è composto da una ritmica jazz con la parte melodica
affidata al sax e al flauto (e qui possiamo stare ancora nell’ambito
del quartetto jazz) ma con l’aggiunta di uno strumento
consuetamente considerato classico ma che dal mio punto di vista e
ovviamente non solo il mio (vedi il successo dei 2 cellos) è uno
strumento ricontestualizzabile in diversi ambiti stilistici. È ovvio
che il violoncello è uno strumento che io amo molto, ma per ciò
che mi riguarda, soprattutto il violoncellista (nel caso specifico
Marco Allocco) che fa la differenza.
Sei un autore
aperto alla diversità, infatti operi tra teatro, cinema, danza
contemporanea e arti visive. Qual è l’elemento musicale che
accomuna i tuoi lavori in tutti questi ambiti?
La libertà
espressiva che paradossalmente questi ambiti extramusicali offrono.
Cerco di spiegarmi: se fai un lavoro solamente musicale prima o poi
devi porti il problema di farlo stare in uno stile riconosciuto ed
etichettabile. Se invece, supponiamo, lavoro con un attore, l’attenzione è rivolta ad altre componenti: il testo, il modo di
esprimerlo di quell’attore, la trama emozionale che si vuol
creare... e dunque: non mi pongo più il problema se ho o non ho un
fraseggio jazz, se faccio un richiamo melodico che assomiglia ad una
ninna nanna di tradizione orale o classica ecc... Ecco da dove arriva
il mio eclettismo, dalla necessità (piacevole) di creare dei quadri
emozionali, delle immagini, delle suggestioni veicolate da
quell’immenso universo comunicativo che è la musica. E poi... la mia
passione per le arti visive è ereditaria: mio padre lavorava in
ambito pittorico ed io oltre agli studi musicali ho fatto il liceo
artistico.
Un’altra area
importante nella quale lavori è la musicoterapia: in che modo questa
attività penetra nella composizione di Franco Olivero?
Se da un lato tendo
a distanziare i due ambiti professionali (quello del musicoterapista
da quello del musicista) non posso negare che in qualche modo l’uno
influenza l’altro: la formazione e soprattutto l’esperienza
pratica della musicoterapia mi ha insegnato ad ampliare il mio range
di ascolto (in termini non solo musicali) e di ricerca di
comunicazione con particolare attenzione all’aspetto del dialogo
interattivo. Questo ha sicuramente condizionato la scelta dei
musicisti che impersonano l’aspetto che io definisco “sano” del
jazz: cioè quello dell’interplay contrapposto a quello insano e
autoreferenziale dell’esibizionismo tecnico. È anche vero che ( la
domanda che me lo fa venire in mente) alcune idee compositive sono
nate suonando il pianoforte nella mia aula in attesa tra una seduta e
l’altra...
Zona Franca
fa parte della scuderia Ultra Sound Records, che ha in catalogo nomi
come Eric Marienthal, Gigi Bonafede e Fabrizio Poggi. Un artista come
te, colto e poliedrico, come vive l’attuale crisi della
discografia?
In maniera
disorientata: ho un figlio adolescente che suona la chitarra e ama il
metal ma... non ha un disco e... ecco l’aspetto disorientante: per
noi il fatto di possedere il disco oltre essere un punto di arrivo,
una tangibile conquista, in qualche modo era anche un po’ vissuto
come una sorta (perché no?) di “avvicinamento all’artista”, un
po’ come quando di un pittore si acquista un’opera. Ma mi fermo
qui dicendo che non è solo una questione di musica solida o liquida,
di accesso conquistato o facilitato alla musica: la questione è il
rispetto per chi opera nel settore, per chi studia, per chi ha idee,
talento e soprattutto originalità. Non vedo più energia nè
imprenditoriale né mediatica che vada in tal senso, ciò mi
rattrista molto ma... spero di sbagliarmi.