di Goffredo Palmerini - “Facciamo
strada insieme”, dice mons.
Corrado Lorefice ai
palermitani che lo acclamano mentre va in Cattedrale da Piazza
Pretoria, dove ha parlato alla città.
Ha già commosso Palermo
con la semplicità del tratto, la tenerezza dei gesti, il sorriso,
l’umiltà e la densità delle sue parole che arrivano dritte al
cuore. L’emozione si percepisce, si tocca. Palermo
accoglie il suo nuovo Arcivescovo con gioia festosa, riempiendo le
strade, la piazza antistante e la grande Cattedrale. Ma ora andiamo
per ordine, nel raccontare questa giornata memorabile per la città e
per l’intera Sicilia. Siamo partiti presto stamane da Modica,
con Maurilio Assenza,
don Federico Palmerini,
don Salvatore Cerruto
e Marco Giurdanella,
provetto driver del Ducato che ci trasporta. Magnifica giornata di
sole lungo i 300 chilometri d’autostrada separano la bella città
della Contea dalla “capitale” della Sicilia, terra splendida
anche in quest’ultimi giorni d’autunno mentre sulla costa
tirrenica espone rigogliosi agrumeti, con l’oro dei frutti giunti a
maturazione. Don Corrado
- così il presule vuole che sempre si chiami - ci vuole salutare
all’episcopio, alle 11 e mezza, ora prevista per il nostro arrivo.
Giungiamo intorno alle 11 a Palermo e ci dirigiamo verso il Cassaro,
dov’è l’episcopio. Traffico deviato però, perché tutta l’area
intorno a Palazzo dei Normanni
e la Cattedrale
è inibita al traffico. Ci fermiamo nelle adiacenze. Maurilio si
sente con Mario Sedia,
vice direttore della Caritas diocesana e nostro anfitrione. Ci
rassicura, verrà a scortarci lui stesso in moto, con il permesso
all’accesso nell’area riservata. E infatti arriviamo davanti al
Palazzo dei Normanni, dove saranno sistemati gli autobus provenienti
da Modica
e da Ispica,
paese natale di don Corrado.
Palazzo
dei Normanni si mostra nella
sua magnificenza. Sta su un’altura compresa tra le depressioni dei
fiumi Kemonia e Papireto. Da lì si domina tutta la città, spianata
nelle sue belle architetture fino al mare. Oltre un secolo prima
dell’anno Mille, sui resti d’una antica roccaforte punica e poi
romana, gli Arabi avevano costruito il “Qasr” - il Càssaro
- la loro residenza fortificata. Con l’avvento dei Normanni
l’imponente costruzione divenne la Reggia, munita di quattro torri,
delle quali solo una oggi è superstite. Ruggero
II la rese sua dimora
sfarzosa, convocandovi il fior fiore di artisti arabi e bizantini a
decorarla. La testimonianza più splendida e magnificente è la
Cappella Palatina,
basilica a tre navate realizzata in modo singolare al primo piano del
Palazzo. Un vero gioiello artistico ed architettonico, risplendente
dei suoi mosaici su fondo d’oro che illustrano storie del Vecchio e
Nuovo Testamento, gli Evangelisti ed un meraviglioso Cristo
Pantocrator. Mirabile fusione d’arte bizantina e maestria
decorativa araba, sintesi superba di più culture che ne fa un
autentico scrigno, un incrocio di tradizioni artistiche e civiltà al
massimo livello - romanica, araba e bizantina - che nell’attuale
difficile congiuntura storica dovrebbe insegnare molto e far
riflettere certi ciarlatani da strapazzo che evocano guerre di
religione con l’Islam. Il Palazzo, con Federico
II di Svevia, diventò centro
di quel grande crogiolo di culture che l’imperatore volle
diventasse la città dove con sapienza governò il regno, dove nel
1250 si spense e dove è sepolto, in un sarcofago, all’interno
della splendida Cattedrale.
Andiamo
verso l’episcopio. Si trova accanto alla magnificente Cattedrale,
di recente entrata con quelle di Cefalù
e Monreale
nel Patrimonio dell’umanità, riconosciute dall’Unesco
“Itinerario arabo-normanno”.
Dedicata a Santa Maria Assunta, il meraviglioso tempio è situato sul
sedime dove nel IV secolo fu edificato il primo luogo di culto, poi
distrutto dai Vandali. Riedificata nell’anno 604 in epoca
bizantina, di cui oggi resta la cripta, la Cattedrale venne un secolo
dopo adattata al culto della Chiesa d’oriente, quando passò sotto
l’egemonia del Patriarca di Costantinopoli. Con la dominazione
araba, tra il IX e l’XI secolo, diventa luogo di culto musulmano,
la grande Moschea Gami, capace di contenere fino a 7 mila fedeli. Il
ritorno al culto cristiano si ha con l’avvento dei Normanni, gli
Altavilla,
che in Sicilia favoriscono l’erezione di chiese fastose e stupende.
La cattedrale è rimaneggiata e modificata più volte, arricchita
nelle sue preziosità artistiche e nelle architetture, conservando
tuttavia le testimonianze precedenti. Con la dominazione spagnola,
nel Cinquecento, la cattedrale viene impreziosita dagli artisti del
Rinascimento siciliano. Il genio artistico di Domenico
e Antonello Gagini,
di Francesco Laurana
e delle loro scuole lascia capolavori impareggiabili, a Palermo e in
tutta l’isola. E ancora il Barocco siciliano imprime il suo
inconfondibile stile nelle decorazioni del tempio. Oggi la Cattedrale
è una sintesi meravigliosa della sua lunga storia e delle influenze
artistiche che l’hanno interessata. Ogni suo prospetto incanta, per
la bellezza delle architetture. Al suo interno parte di tale grande
storia è testimoniata dalla custodia in artistici sarcofagi dei
resti mortali di Ruggero II
e Costanza d’Altavilla,
di Enrico VI
e Federico II di Svevia,
di Costanza d’Aragona.
L’episcopio
affaccia lungo via Bonello, di fronte la porta principale sulla
navata centrale della Cattedrale. Due archi ogivali uniscono i due
corpi di fabbrica. All’ingresso una grande folla attende l’arrivo
di don Corrado.
Molti sono i suoi parrocchiani di San Pietro Apostolo a Modica.
Il nostro gruppo – Maurilio, don Federico, don Salvatore, Mario
Sedia e chi scrive – è ammessa all’alloggio privato
dell’Arcivescovo. Una religiosa ci prega d’attendere il suo
arrivo. Siamo in un’oasi di quiete, un impensabile giardino entro
le mura dell’episcopio, coltivato ad agrumi e piante d’ortaggi.
Esce ad accoglierci il cardinale
Paolo Romeo, che oggi
presiederà la cerimonia di consacrazione di don
Corrado e gli passerà il
testimone della guida della diocesi. Cordiale e affabile, ci descrive
la geografia dell’orto, le specie di frutta e piante che conserva,
l’importanza che per lui ha l’orto nel recupero della serenità
nei momenti difficili, proprio osservando la vita delle piante,
passeggiando nei camminamenti fin verso la cappellina della Madonna.
Un’abitudine, quella dell’osservazione della natura, coltivata ad
Haiti,
dove fu Nunzio apostolico per molti anni, ma anche propria della
cultura d’origine, egli siciliano di Acireale. Passano una ventina
di minuti. Non si ha ancora notizia di don Corrado. Poi, finalmente,
ci comunicano che è stato “bloccato” all’ingresso dai giovani
della sua parrocchia di Modica
che gli cantano “Benedicat
tibi Dominus et custodia te
…”. Lo troviamo infatti là tra sorrisi, abbracci, lacrime di
gioia, sentimenti espressi. Viene ad abbracciarci, quando ci vede, a
riservare a ciascuno di noi la sua premurosa amicizia, a condividere
qualche minuto d’affettuosa confidenza. Il festoso abbraccio della
sua gente però sta prendendo tempo e intacca un appuntamento. Il
Cardinale Romeo è pronto a ricordarglielo, scendendo dalla sua auto
con targa del Corpo Diplomatico. Don Corrado, accompagnato da don
Angelo Giurdanella, vicario
della diocesi di Noto,
sale sulla sua Ford Fusion e si accoda all’Audi del Cardinale. E’
l’ultimo impegno della mattinata.
Alle
tre del pomeriggio ai cancelli della chiusa che contorna la piazza
della Cattedrale
un rigoroso presidio delle forze dell’ordine già comincia a
controllare il flusso degli accessi, scrupoloso il passaggio al metal
detector. Addetti all’accoglienza con l’elenco degli ospiti
verificano i pass per l’accesso e indicano i posti riservati,
all’interno dell’ampia chiesa. C’è già gran folla in attesa,
per la celebrazione prevista alle 17. Davanti la porta laterale della
Cattedrale, che dà sulla piazza, stanno sistemando migliaia di
sedie. Un maxischermo è montato accanto all’ingresso. Gruppi di
scout accompagnano ai posti riservati. Intanto, anche lungo Via
Vittorio Emanuele si va ammassando gente sui due lati dell’importante
arteria che dal Cassaro scende fino al mare. Alle 16 il nuovo
Arcivescovo è atteso in Piazza Pretoria, davanti Palazzo
delle Aquile, sede del
Municipio, per il saluto alla città. Un piccolo palco è stato
preparato. Il sindaco Leoluca
Orlando, i rappresentanti
delle altre istituzioni, autorità civili e militari sono lì quando,
puntuale, don Corrado
vi arriva con la sua utilitaria. Il sindaco lo accoglie con calore e
amicizia. Piazza Pretoria è gremita, ci sono striscioni di
benvenuto. Dopo il saluto del primo cittadino, l’arcivescovo si
rivolge alla “sua” città, ai palermitani tutti.
“A
tutti giunga questo mio saluto. E’ il nostro primo incontro,
carissimi fratelli e amici di Palermo. Qui la città intera oggi
converge, rappresentata in tutte le sue istituzioni, a cui ricambio
l’accoglienza affettuosa, e che ringrazio nella persona del sindaco
Leoluca Orlando.
I nostri occhi sono ricolmi di gioia e di gratitudine. I miei,
anzitutto, che si trovano a contemplare, ad ammirare la grandezza di
una città che ora è la mia, che dico ‘mia’ dal profondo, e che
riconosco stasera - lasciatemelo dire cominciando la mia avventura
qui, tra di voi - nella sua dignità di grande capitale europea,
nella sua tradizione illustre di arte e di bellezza, nella sua natura
originaria di culla di civiltà, di spazio umano felicemente
contaminato da popoli e da culture diverse. Qui Oriente e Occidente
davvero si sono incontrati. Qui si sono gettate le basi della
letteratura italiana, ovvero della prima, secolare forma di unità
del nostro paese sotto il segno della poesia. Io, che approdo qui da
altri luoghi di una Sicilia dai cento volti, sento tutto questo.
Sento l’esigenza di ricordare a tutti noi, anzitutto, la vocazione
di pace, di incontro, di unità nel dialogo e nello scambio, che
Palermo
si porta scritta nel cuore. L’esigenza di ricordare la sua natura
di ponte tra le culture - araba, ebraica e cristiana - in un tempo
storico così difficile, in cui tanti evocano e auspicano un folle
scontro di civiltà.”
Don
Corrado ricorda poi che siamo
un popolo che ha la sua grandezza nel potere della relazione, nella
ricerca della pace, nell’esaltazione della bellezza, nello stare
insieme nella prosperità e nella gioia. Richiama tutti ad essere
costruttori di pace, donne e uomini di giustizia. E aggiunge: “Certo,
non mi nascondo il fatto che la bellezza della nostra Palermo
appare oggi spesso ferita, la sua antica grandezza afflitta da
contraddizioni, la sua civiltà gloriosa piagata dalla violenza e dal
sopruso. Ma io stasera sono qui per fare mio anche tutto questo, per
farmi carico con voi di tutto questo. Sono qui per accogliere
umilmente e valorizzare con passione i segni del bene, del tanto bene
diffuso da tutte le donne e gli uomini di buona volontà, che già da
tempo lavorano per la bellezza di Palermo. Perché nella sua storia
questa Città porta sempre disponibili i semi della sua rinascita,
del suo possibile ritorno ad essere principio e guida di una Sicilia
diversa, di una Sicilia libera dai lacci della mafia e di tutte le
mafie, dai veleni del clientelismo e del cinismo, dalla disillusione
e dalla disperazione dei giovani costretti a partire e degli adulti
senza lavoro, libera dalla difficoltà economica e dalle
contraddizioni sociali, dalla povertà e dall’ingiustizia, dal
pressappochismo e dalla rassegnazione. Di una Sicilia che sia la
terra della festa, della memoria viva degli anziani, dell’operosità
vigile degli adulti, del sogno incantato dei bambini, che sono
l’immagine del nostro futuro, e in questo nostri maestri. Sia
chiaro. Vi dico tutto questo non da politico, o peggio, da moralista.
Ve lo dico a partire dal Vangelo che sono chiamato a portarvi, che
Papa Francesco
mi ha chiamato a portarvi. E, proprio in forza del Vangelo, ve lo
dico come uno di voi. Perché in forza del Vangelo il vescovo è
chiamato, insieme con tutti i cristiani, a stare accanto ad ognuno di
voi, accanto alla vostra storia che è la stessa storia della
comunità cristiana, accanto al vostro dolore e al vostro desiderio
di riscatto che è il mio e il nostro. Voglio stare in mezzo a voi
così. So che la chiesa di Palermo abita e vuole abitare questa
storia così. Nella semplicità, nel servizio affettuoso,
nell’apertura calda e serena”.
E
ancora, commuovendosi, don
Corrado cita la nostra
Costituzione: “I cristiani non hanno nulla di più e di diverso
dagli altri. Vivono le ansie e le sofferenze della storia, come
tutti. E come tutti attendono una liberazione e un riscatto,
lavorando insieme ad ogni donna e a ogni uomo, di qualunque fede,
cultura o estrazione essi siano, alacremente e nella speranza. E noi
lo sappiamo che cosa significa tutto ciò, in concreto: don
Pino Puglisi ce ne ha
mostrato l’icona, ci ha fatto capire che cosa significhi
testimoniare semplicemente il Vangelo come parola dell’accoglienza
di tutti. In questo cammino comune, che unisce tutti al di là di
ogni steccato, la nostra bussola, la bussola di ogni cittadino di
questo nostro Paese, io credo debba essere la Costituzione della
Repubblica italiana. Sia, questa bussola, per me per primo,
quell’articolo 3 della nostra Costituzione - così amato e difeso
da Giuseppe Dossetti
alla fine della sua vita - quell’articolo 3 che come cittadini,
ognuno nella propria responsabilità e nel proprio ruolo, siamo
chiamati a rendere reale nella nostra pratica quotidiana, nella
nostra vita di ogni giorno: «Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica (ovvero
di ognuno di noi e delle istituzioni dello Stato) rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese». E per realizzare tutto questo, Palermo
ha un’energia speciale, una forza potente: quella di tanti
testimoni della verità e della giustizia che hanno effuso il loro
sangue per creare una convivenza più giusta e più umana, per dire
di no alla violenza e al sopruso, ai poteri che puntano a distruggere
l’uomo e a cancellarne la dignità. Concludo mandandovi un
abbraccio affettuoso, un saluto pieno di cordialità. Che entri in
tutte le case, lì dove in questo momento si gioisce e si soffre.
Arrivi a tutti un augurio di bene in questa ora della nostra giornata
umana. […] Nel mio stemma episcopale ho voluto mettere la croce dei
certosini. È una croce che avvolge, che abbraccia il mondo. Ognuno
di voi, anche chi non è credente o chi vive un’altra esperienza
religiosa, tutti, tutti sentite l’abbraccio di Cristo, colui che,
secondo quanto ci viene narrato dai Vangeli, ha tanto amato il mondo
da dare la sua vita in favore di ogni uomo e di ogni donna. Ma
sentite anche l’abbraccio di don
Corrado che oggi viene
consacrato vescovo, successore degli apostoli di Gesù in questa e
per questa amata città di Palermo. Buona strada a tutti!”
Concluso
il discorso in Piazza Pretoria, don
Corrado sceglie d’andare a
piedi, tra due ali di folla, lungo il tragitto verso la Cattedrale.
Commovente l’abbraccio ai palermitani, che lo salutano con affetto.
Saluta tutti, con gesti della mano e con sorrisi. Già pare che abbia
conquistato il cuore della città. Noi intanto guadagniamo l’ingresso
in chiesa. Il servizio d’ordine ci accompagna nei posti riservati,
tra i familiari, nelle prime file della navata centrale. Don
Federico ha preso posto tra i
presbiteri, centinaia, disposti in file dietro l’altare. All’amico
dall’Aquila è stata riservata una sedia in terza fila. Don Corrado
ha una particolare attenzione per le persone, anche a costo
d’infrangere il protocollo. La nostra delegazione della Parrocchia
di Paganica
(L’Aquila), gemellata dopo il terremoto del 2009 con quella di San
Pietro Apostolo di Modica,
dove don Corrado è stato parroco per 7 anni, si ricongiunge in
chiesa: Anna e Gioacchino Masciovecchio, Daniele Ferella, Francesco
Bergamotto e chi scrive, uno accanto all’altro, siamo nel lato
destro della navata centrale. Nella prima fila siedono i genitori e i
fratelli di don Corrado. Nel lato sinistro della navata, in prima
fila, siedono due imam in rappresentanza dei musulmani del Coreis, i
rappresentanti delle altre confessioni religiose cristiane, di quella
ortodossa e della comunità ebraica. Un segno davvero importante,
forte, questo che le tre religioni monoteiste oggi stanno dando a
Palermo, nei tempi difficili che viviamo. Un fatto straordinario ed
eccezionale, se si riflette ch’esso si realizza in una chiesa
cattolica, nell’ambito d’una cerimonia religiosa solenne, come la
consacrazione dell’arcivescovo di Palermo. Che sia questo un segno
profetico! In seconda fila le suore di Madre Teresa di Calcutta, la
comboniana suor Valeria che si cura e prega con le prostitute.
Insomma i poveri, secondo il desiderio di don Corrado, che avrebbe
voluto lì anche Biagio Conte,
l’apostolo degli ultimi che a Palermo
dà un letto e un pasto a quasi mille persone in difficoltà. Ma il
missionario laico tra i poveri preferisce scegliere una soluzione più
dimessa, confuso tra la folla dei fedeli, con il suo saio consunto e
il suo vincastro. Le autorità sono disposte invece a sinistra del
transetto, molti i sindaci – Leoluca Orlando in prima fila -, gli
amministratori pubblici, parlamentari, rappresentanti dello Stato, e
il Presidente della Regione, Rosario
Crocetta.
La
Cattedrale è ricolma, nelle sue tre navate. Gli scout assistono chi
ha bisogno e presiedono all’ordinata sistemazione nei posti
assegnati. Due megaschermi collocati in testa alle navate laterali
trasmettono le riprese per far seguire meglio la cerimonia, trasmessa
anche in diretta. Alle 17 l’ingresso solenne in processione dei
chierici, presbiteri e celebranti. Mons.
Lorefice viene sovente
abbracciato lungo il percorso verso l’altare. Ha gli occhi umidi,
non cela la sua commozione. Ha inizio la cerimonia di consacrazione,
presieduta dal cardinale
Romeo, concelebranti tutti i
vescovi della Sicilia e i cardinali
Francesco Montenegro e
Salvatore De Giorgi.
Intenso il rito della consacrazione episcopale, con la presentazione
del consacrando cui segue una bella omelia del cardinale Romeo. Il
rito riprende con la proclamazione degli impegni del consacrando.
Quindi don Corrado
si prostra a terra, completamente disteso. Vengono cantate le litanie
dei Santi. Il consacrando s’inginocchia per l’imposizione delle
mani sul suo capo da parte del cardinale Romeo e di tutti i vescovi.
Segue l’imposizione del libro dei Vangeli, la preghiera
d’ordinazione, l’unzione crismale. Infine, la consegna del libro
dei Vangeli, la consegna dell’anello in segno di fedeltà e
integrità nella fede, la consegna della mitra e del pastorale, segni
della missione del Pastore. Termina la consacrazione episcopale. Una
cerimonia commovente, intensa. Il nuovo Arcivescovo di Palermo può
dunque insediarsi sulla cattedra. Un lunghissimo applauso, molti
minuti. L’arcivescovo in piedi sulla cattedra, il capo chino. Da
questo momento sarà lui, don Corrado, a presiedere la celebrazione
eucaristica. Che va avanti nella sua solennità e nei commoventi
segni che rivela, come l’offerta del pane e del vino affidate a
persone umili, proprie della quotidianità della sua vita di parroco.
Ricevendo l’offertorio, saluta ciascuno accompagnando l’abbraccio
con gesti di grande tenerezza. Al termine della Messa sono quasi le 8
di sera e l’arcivescovo ha benedetto l’assemblea dei fedeli
portandosi in diversi punti della Cattedrale, infine tornando sulla
cattedra. Il nuovo Arcivescovo rivolge quindi il saluto alla “sua”
Chiesa di Palermo. E’ commosso, legge il suo scritto. Ogni parola è
pesata. E dunque è bene riportarlo integralmente il ringraziamento
di don Corrado Lorefice.
Care
Sorelle, Cari Fratelli,
mi
rivolgo a voi stasera con grande emozione e con profonda gioia. A
voi, che siete il popolo santo di Dio della Chiesa di Palermo – che
da stasera diventa la mia diletta –, e alla quale fate, direi,
scorta e corona quanti dalle care Chiese di Sicilia, dalla mia amata
Chiesa di Noto, da ogni altra Chiesa, da ogni altro luogo o
esperienza, siete qui, insieme con noi, a dare un senso di amicizia e
di compagnia nella fede a questa celebrazione, a questa festa. A
tutti dico ‘grazie!’. In primo luogo a chi questa Chiesa stasera
mi consegna dopo avervi lavorato con amorevole dedizione: a Te,
carissimo cardinale Paolo Romeo; e a te vescovo co-consacrante, a me
carissimo, Don Paolo De Nicolò; allo stimato cardinale Salvatore De
Giorgi che ha servito come amabile pastore questa Chiesa; e a voi
fratelli vescovi, che avete voluto essermi accanto in questo momento
decisivo della mia vita, in particolare al mio vescovo Antonio
Staglianò, a cui va un pensiero grato per la stima da sempre
manifestatami; a voi tutti seminaristi (da sempre cari al mio cuore),
a voi diaconi, a voi presbiteri che con la vostra presenza mi avete
voluto manifestare la vostra grande partecipazione a questo evento; a
voi religiose, religiosi, membri degli istituti secolari, che siete
accorsi nella nostra Cattedrale numerosi, con affetto. E poi un
‘grazie’ sentito anche a voi, rappresentanti delle altre
confessioni cristiane, della comunità ebraica e della comunità
islamica che con squisito (e da me graditissimo) pensiero avete
scelto di essere qui in questo giorno: a dirmi la vostra vicinanza, a
darmi la vostra preghiera. Il dialogo con tutti voi sarà
fondamentale per me in questi anni avvenire: sarà un’urgenza e una
gioia. ‘Grazie’ a voi rappresentati della Città e delle
Istituzioni, nei diversi uffici e nelle molteplici forme. ‘Grazie’
infine - ma vorrei dire ‘in principio’ - a tutti voi che
indipendentemente da ogni appartenenza, da ogni ruolo, da ogni
credenza, siete affluiti qui stasera come donne e uomini spinti
semplicemente dal desiderio di esserci, qui a rappresentare
simbolicamente per me l’umanità intera nella sua dignità, nella
sua essenziale tensione a stare insieme, a partecipare alla cosa di
tutti. Vengo in mezzo a voi anzitutto come un uomo che vuole
condividere i suoi sentimenti e la sua storia.
Sono
nato a Ispica, in una piccola città siciliana, da una famiglia
‘naturalmente’ cristiana (che amo immensamente e che saluto di
cuore); mi sono formato alla scuola di mons. Salvatore Nicolosi,
grande vescovo del Concilio, a cui devo tanto (e io so che stasera
lui – tangibilmente presente nel segno della croce pettorale che
porto - nella comunione dei santi ci benedice); ho studiato a Noto, -
mentre era rettore mons. Giuseppe Malandrino, poi divenuto mio
vescovo - a Catania, a Roma, a Bologna; ho servito il seminario della
mia diocesi insieme al mio carissimo amico don Rosario Gisana, ora
vescovo di Piazza Armerina; ho insegnato teologia morale presso lo
Studio teologico San Paolo di Catania; sono stato parroco di San
Pietro in Modica per sette meravigliosi anni e dall’anno scorso
anche della Parrocchia S. Paolo Apostolo. Ho avuto modo di
frequentare l’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente, in
particolare, ultimamente, la Siria. Ma appunto per questo, perché
questa è stata sinora la mia vita, così bella, così intensa e così
normale, proprio per questo la scelta operata dal vescovo di Roma, da
papa Francesco – che qui ricordo insieme a voi con grande affetto –
la scelta, dicevo, di affidarmi la Chiesa di Palermo mi ha in un
primo tempo spiazzato. Non vi nascondo il travaglio e l’agitazione
che hanno segnato per me i primi giorni dopo l’elezione, così come
non intendo celare a voi la trepidazione che vivo costantemente. Ma
accanto a tutto ciò, giorno dopo giorno, ho sentito crescermi
dentro, mentre venivo travolto dall’affetto, dall’amicizia, dalla
solidarietà di tanti di voi, un senso di confidenza, una speranza
sempre più forte: la sensazione di prepararmi alla consegna
definitiva della mia esistenza a colei che diventava la mia sposa, da
amare fedelmente, da onorare, da portare nel cuore.
E
ho pensato che questo significa anzitutto essere vescovi: sentirsi
sposati, rimanere fedeli, condividere tutto. Ho capito quanta ragione
abbia la Prima Lettera a Timoteo quando esige che il vescovo sia
anzitutto uno che sappia aver cura della propria famiglia e che così
governi la Chiesa di Dio. La scelta di Francesco mi ha colto nella
quotidianità del mio essere uomo, del mio essere cristiano, e tale
sono qui stasera davanti alla mia Chiesa. Posto accanto ad ognuno di
voi in ascolto del Vangelo, che è tutta la nostra ricchezza, tutta
la nostra forza. Ricordiamoci delle parole di Pietro al tempio, di
fronte al dolore dell’uomo storpio: «Guarda verso di noi […] Non
ho né oro né argento, ma tutto quello che ho te lo do: nel nome di
Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». Non abbiamo altro da
far vedere, da vivere e da dare al mondo se non la potenza di questo
annuncio portato da Gesù di Nazareth nel cuore della storia umana:
Dio ci ama, ama ogni donna e ogni uomo, prima e indipendentemente da
ogni merito e da ogni virtù. Ci ama mentre siamo poveri e peccatori.
Per
questo la Chiesa è la casa di tutti, la casa che per fedeltà al
Vangelo del suo Signore accoglie tutti e non ha nemici, non alza
barriere, non accampa diritti o privilegi. Il primo compito del
vescovo è questo: ascoltare il Vangelo insieme alla sua Chiesa,
farsi giudicare, farsi condurre e sollevare dalla potenza di questa
Bella Notizia che ogni uomo sente nel profondo, al di là di fedi e
di appartenenze, perché il Vangelo non ne conosce (il ministero di
Papa Francesco ce lo rammenta ogni giorno). Durante la celebrazione
non per nulla sopra il mio capo è stato tenuto, come un segno,
l’Evangeliario, il libro dei Vangeli. Perché io non dimentichi di
rimanervi sotto, di servirlo. Non ho piani da proporvi, non ho
programmazioni pastorali da inculcarvi, ma vi chiedo solo di aiutarmi
ad ascoltare la chiamata che mi ha portato qui tra di voi, di
continuare ad ascoltarla e di lasciarci insieme guidare dal Vangelo.
Papa Giovanni XXIII che ci ha donato il Concilio, rinnovata
Pentecoste del nostro tempo, ci ha detto che non è il Vangelo che
cambia ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Ecco la
fonte della Chiesa povera e dei poveri che oggi Papa
Francesco
ci consegna e che ho avuto modo di approfondire in questi anni nel
contributo del card.
Giacomo Lercaro
e di don
Giuseppe Dossetti
al Vaticano II. Perché la paternità del vescovo, come sappiamo non
significa esercizio di potere e di dominio. Quando Gesù dice con
forza ai discepoli di non chiamare nessuno «padre» sulla terra,
intende, a mio modo di vedere, richiamare in controluce il senso
della vera autorità, della paternità che Lui ha esercitato tra di
noi avendo cura di tutti e avendo a cuore tutti.
Voglio
dunque con voi ascoltare il Vangelo, ricordarvi la sua bellezza e il
suo dinamismo (è questa l’unica cattedra che concepisco), e al
contempo desidero ardentemente, in tutto il mio ministero,
ascoltarvi: con passione, con dedizione quotidiana. L’ascolto
autentico del Vangelo e l’ascolto degli altri nella verità sono
due azioni intimamente connesse. Voglio ascoltare voi, sorelle e
fratelli diletti, voglio ascoltare voi, presbiteri della mia Chiesa,
sin d’ora da me molto amati. Voglio immettermi nella vivente e
ricca tradizione di questa Chiesa di Palermo, ascoltare la sua
santità e la sua fede operante, imparare come essa accoglie e vive
la Parola di Dio ospitata nelle pagine della Scrittura e nelle pagine
della sua Storia, come si conforma al suo Signore nei segni
sacramentali della Chiesa – la Frazione del pane, l’ascolto
orante della Parola, i Poveri e i Piccoli – e negli eventi della
storia, nei segni dei tempi. Voglio immergermi nel vissuto e nella
storia di questa grande città che è Palermo, con ammirazione e
rispetto, per ascoltarne il respiro, per essere aperto alla parola di
ognuno, sapendo che lo Spirito come il vento «soffia dove vuole», e
che il Regno di Dio è ben più grande della Chiesa. La Chiesa, è
solo il Regno «praesens in mysterio», chiamata a riflettere non una
luce propria bensì la luce del suo Signore e Maestro. Dice il
profeta Geremia: «Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi
circa i sentieri del passato, dove sta la strada buona e prendetela,
così troverete pace per le anime vostre».
Ascoltare
vuol dire dunque saper guardare al passato, custodire la memoria. La
memoria dei santi e dei martiri, prima di ogni altra. La memoria
della Chiesa che è stata di Mamiliano e di Giacomo Cusmano, di
Rosalia e di don Pino Puglisi. La memoria di una Chiesa che in tante
forme e con grande creatività condivide e solleva la fatica di chi
stenta a vivere: penso tra gli altri alle tante iniziative della
Caritas diocesana e delle Caritas parrocchiali, alla Missione
speranza e carità di Biagio Conte, alle Mense della carità, ai
servizi per i migranti: dall’oratorio santa Chiara al Centro
Astalli, ai Centri sociali e così via. La memoria di una terra che è
stata terra del martirio di Piersanti
Mattarella
e di Carlo
Alberto Dalla Chiesa,
di Rosario
Livatino
e di Peppino
Impastato,
di Giovanni
Falcone
e di Francesca
Morvillo
e di Paolo
Borsellino
e degli eroi
umili delle loro scorte,
di uomini e donne che, insieme ai tanti altri, esprimono il sussulto
di dignità e il profondo desiderio di giustizia di questa terra
violata e violentata, dominata a volte da potenze straniere ma
soprattutto sfigurata dalle forme perverse di 4 dominio germinato
nella sua stessa carne. Terra di quanti, anche se non caratterizzati
per appartenenza religiosa, da anni sostengono la cultura della
legalità e la rivendicazione dei diritti della persona e in
particolare il diritto alla case e al lavoro di tanti disperati
promuovendo anche l'utilizzazione dei beni confiscati alla mafia. Una
terra e una città che tramite i suoi testimoni grida la propria
passione per l’avvento del Regno di giustizia e di pace, di libertà
e di riscatto, dove non ci saranno più la morte, il lutto, il
lamento e il pianto.
E
penso qui oggi con affetto al fratello di Piersanti Mattarella, a
quel Sergio, Presidente
della Repubblica italiana,
che idealmente rappresenta per noi, con la sua testimonianza di
serietà, con il suo rigore e la sua parola, quest’ansia e questa
speranza di cambiamento per il popolo palermitano e per la Sicilia
tutta. Desidero che sia chiaro. Coltivare la memoria, custodirla
fedelmente, non vuol dire dare riconoscimenti puramente formali, né
tantomeno ideologici. Per un vescovo, per il vescovo che io vorrei
essere tra di voi, custodire la memoria equivale a rimanere in
stretto contatto con le vite, i corpi, le esperienze di amore e di
dolore che sono il vero humus di questa terra. Significa sentirle e
farle sentire vive, accompagnarle con partecipazione e con affetto.
Vuol dire farsi scudo e garante di ciò che è bene e che fruttifica.
Vuol dire essere dalla parte dei poveri, a cui voglio stare accanto e
che avrò sempre come bussola della mia vita in mezzo a voi: penso
alle famiglie economicamente, affettivamente e spiritualmente più
disagiate; a chi è tenuto ai margini, a chi non è nemmeno
considerato; ai bambini, agli anziani, agli ammalati, agli ospiti
degli istituti penitenziari; alle donne violate, a chi fugge dalle
guerre e dalla fame; a chi piange, a chi non ha nessuno; a chi soffre
e dà la vita per la pace e per la giustizia. E questo comporta per
me fare argine concretamente, con forza, insieme con voi e con tutto
me stesso, ai «poteri di questo mondo» che vogliono annientare la
dignità e la bellezza del nostro essere uomini.
Perché
questo è la mafia e questo sono tutte le mafie, in ogni forma e in
ogni parte del mondo: l’opera di gente che ha perso di vista il
volto dell’altro, che è pronta a calpestarlo perché vive nella
costante strumentalizzazione di ogni essere. E per questo la vita di
costoro è disperata, è infelice. È una vita che ha perso il suo
senso e la sua gioia, che va verso il nulla, gettata com’è
nell’abisso dell’odio. E mentre ne dichiariamo senza mezzi
termini la follia, dobbiamo credere questa stessa vita sollevabile,
redimibile, facendoci, come il Signore Gesù, ascoltatori feriti
anche del dolore illegittimo del colpevole, inermi (e per questo
forti) testimoni di una parola che non ha paura di richiamare l’uomo
a se stesso, ma che salva senza inimicizia e senza odio: il nostro
don Pino Puglisi è lì a dircelo con la sua testimonianza, con tutta
la sua esistenza. Ascoltare il Vangelo, ascoltare l’altro, aver
cura, amare, far crescere; volere il bene di chi ti è affidato,
accompagnandolo su ogni strada, condividendo la vita con lui senza
risparmio e senza giudizio: questo mi pare in fondo il compito
affidato al vescovo. Vivere radicalmente cioè la mis- 5 sione del
Figlio dell’uomo, «che è venuto per servire e non per essere
servito». «Exemplum dedi vobis». «Vi ho dato infatti l’esempio».
Gesù lo ha fatto confondendosi con noi, con la nostra storia, sino
alla fine. E io interpreto così un momento speciale della
celebrazione di stasera.
Come
avete visto, durante le litanie mi sono prostrato a terra, fino ad
aderire totalmente al suolo. Sento in questo gesto la consacrazione e
la chiamata alla sequela di Gesù, rimasto sino in fondo fedele alla
terra, fattosi povero, fattosi carne e terra per «farci ricchi per
mezzo della sua povertà» (2Cor 8, 9). È con questi sentimenti che
inizio il mio ministero in mezzo a voi. Avviamoci insieme, fiduciosi
e pieni di speranza, sui passi che la Parola di Dio ci indica sin da
stasera. Gli ostacoli non mancheranno, lo sappiamo, e non ci
nascondiamo le asperità sul cammino. Ma confidiamo nel fatto che
Dio, come ci ha annunciato il profeta Baruch, «ha deciso di
spianare» per noi «ogni alta montagna e le rupi perenni», di
rendere piane «le strade impervie» e di fare «grandi cose per
noi», come abbiamo cantato nel Salmo: grandi cose per questa Chiesa,
per questa Città, per questa terra. Perché Egli ha deciso di
entrare - come ci ricorda il Vangelo di Luca - nella storia dominata
dai grandi, dai re e dagli imperatori che opprimono i popoli (e oggi
noi possiamo dare un nome preciso all’oppressore, ovvero a questo
sistema economico crudele che affama le genti e distrugge il pianeta,
riducendo gli uomini ad una merce di scambio), per contribuire a
cambiare il corso delle cose, operando attraverso tutti coloro che
‘cooperano’ per il Vangelo. «Dio mi è testimone del vivo
desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù»,
dice Paolo ai Filippesi. E io mi unisco a lui, con timore e tremore,
ma sapendo che il Padre non ci abbandona, che alla fine la nostra
perseveranza porterà frutto e «ogni uomo vedrà la salvezza di
Dio». Su questa via andremo fianco a fianco, io per voi, ma
soprattutto voi per me, in quella reciprocità amorevole che si
addice agli sposi. «Grande è il Signore che vuole la pace dei suoi
servi». Per questo beneditemi dal profondo del cuore e pregate per
me.
La
Cattedrale risuona a lungo per gli applausi al nuovo Arcivescovo.
Applausi di affetto e condivisione. Poi le congratulazioni, gli
auguri, gli abbracci. Don Corrado si ferma lungamente a parlare con i
rappresentanti delle altre religioni, con i fratelli cristiani delle
altre confessioni. Forse una nuova stagione di dialogo potrebbe
partire proprio qui da Palermo. L’Arcivescovo si ferma in
raccoglimento nella navata di sinistra, davanti alla tomba di don
Pino Puglisi, un santo ed un
amico che tanto ha ispirato la missione sacerdotale di don Corrado.
Quasi le 9 di sera quando il presule esce dalla Cattedrale. Domani
mattina celebrerà la sua prima Messa all’Ucciardone, tra i
carcerati. Ancora un segno d’attenzione e di misericordia. La
delegazione aquilana si ricongiunge con gli amici di Modica. Mario e
Giuseppe, della Caritas di Palermo, ci portano a Casa San Carlo,
struttura d’accoglienza per persone in stato di bisogno e per
immigrati. La visitiamo. Poi condividiamo la mensa con gli ospiti
della Casa. Sono quasi le 23 quando ne usciamo. Maurilio, don
Salvatore, Francesco e Daniele partono per Modica. Vi arriveranno a
metà notte. Anna e Gioacchino restano ancora qualche giorno a
Palermo. Con don Federico pernottiamo in città. Domani mattina
Gaetano Calà,
direttore dell’Anfe Sicilia e nazionale, viene a prenderci alle 8
per accompagnarci in aeroporto. Avremo un’ora buona da condividere
con il carissimo amico siciliano. Oggi non siamo riusciti ad
incontrarci, persi nel mare di gente che ha vissuto un giorno
memorabile. Resterà nella memoria collettiva della città l’emozione
di questa straordinaria giornata particolare, per l’ordinazione e
l’insediamento del nuovo Arcivescovo di Palermo.