Cinema, il regista Guido Chiesa parla di "Belli di papà": il mio film più leggero per un pubblico ampio. L'intervista

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Il film "Belli di papà" uscirà il prossimo 29 ottobre distribuito da MedusaIntervista al regista Guido Chiesa. 

“Come è stato coinvolto in questo progetto e quali sono stati per lei i motivi si interesse?”
"Quando ho iniziato a collaborare con la Colorado film - dirigendo la serie tv “Quo vadis baby” (2008) - Maurizio Totti mi ha chiesto se fossi disponibile a dirigere anche film più orientati verso il mercato, rispetto a quelli drammatici, “difficili”, che avevo realizzato fino a quel momento. Infatti oggi certamente lo spazio per quel tipo di film si è certamente assottigliato, a tutto vantaggio delle commedie. Non avevo nessuna preclusione verso questo genere, ma, non essendomi mai cimentato in una commedia, capivo che ci fosse qualche perplessità. Quando la scorsa primavera, Totti mi ha proposto di dirigere questa storia, prima di dargli una risposta ho chiesto di poter vedere il film messicano campione d’incassi a cui è ispirata, “Nosotros Los Nobles” di Gary Alazraki e ho trovato la storia decisamente interessante. Ancor di più, ho trovato il soggetto ricavato da Giovanni Bognetti per la versione italiana veramente intrigante, più incisivo e ben calato nel contesto del nostro Paese. Quando poi mi sono messo a lavorare con lui sulla sceneggiatura, ho puntato ad ampliare proprio il rapporto genitori/figli, un argomento che è sempre di attualità e che, in quanto padre di tre figli, ho sentito molto vicino. Un tema che è già stato affrontato innumerevoli volte, ma che qui trova una declinazione inedita, perfetta per una commedia. "Belli di papà" ha l’ambizione di essere un film divertente e profondo, che analizza, da un certo punto di vista, un dibattito generazionale, in cui non si prende le parti di nessuno, ma si rappresenta il contesto, le difficoltà, i problemi, le vittorie e gli errori di entrambi, genitori e figli.
“Che cosa si racconta?”
“Il film è la cronaca di una messinscena a fin di bene architettata da Vincenzo Liuzzi (Abatantuono), un ricco industriale milanese, figlio di emigrati pugliesi. Vedovo con tre figli tra i 20 e i 25 anni: Matteo (Andrea Pisani), Chiara (Matilde Gioli) e Andrea (Francesco Di Raimondo) che sono superficiali, viziati e spendaccioni. Il socio di Abatantuono, Giovanni Guida (Antonio Catania), ricorda spesso a Vincenzo che, qualora lui avesse una disgrazia, i tre figli prenderebbero in mano le redini dell’azienda in quanto cointestatari. Quando Vincenzo è vittima di un lieve malore, l’industriale racconta ai tre di aver avuto un infarto, nella speranza di scuoterli dal loro stile di vita. Ma i ragazzi non mutano di una virgola il loro atteggiamento. Vincenzo decide allora di mettere in atto un piano per “riportarli alla realtà” e dare una direzione diversa alle loro vite: fa credere loro che il suo socio è fuggito all’estero lasciando un “buco” enorme e che lui e i figli stanno per essere arrestati per bancarotta. Tutti i conti e le carte di credito della famiglia sono stati bloccati, impossibile ogni fuga all’estero. L’unica chance a loro disposizione è quella di darsi alla latitanza. Come nascondiglio, Vincenzo sceglie la sua fatiscente casa natale nella città vecchia di Taranto, dove nessuno si sognerà mai di andare a cercarli. Ovviamente si tratta di un trucco, ma i ragazzi ci cascano e, come prevedibile, sono sconvolti. Anche perché il padre li informa che, per sopravvivere, dovranno cominciare a fare qualcosa che non hanno mai fatto in vita loro: lavorare. Costretti dalle circostanze, i tre si mettono alla ricerca di un mestiere e, attraverso un salutare bagno di umiltà, rivelano col tempo, ognuno in modo diverso, notevoli capacità di adattamento e iniziativa. Vincenzo è soddisfatto dalla svolta che è riuscito a imprimere alle loro vite. Ma qualcosa inizia a mettere in crisi il suo piano: da un lato, il padre scopre aspetti e problemi dei figli che ignorava del tutto; dall’altro, quel che è peggio, loro scoprono alcuni segreti che Vincenzo non avrebbe mai voluto rivelare. Insomma, poco a poco, il padre si rende conto che tutti i problemi dei figli, inclusi quelli per cui ha orchestrato la messinscena della bancarotta, hanno un’origine che lo riguarda molto da vicino...”. Il tutto naturalmente è raccontato con i toni della commedia, non solo per i meccanismi, ma anche per la storia, i personaggi e l’ambientazione, nel solco di una certa commedia italiana capace di far divertire, ma anche riflettere, emozionare, persino commuovere. Oppure, per certi versi, se si guarda al mondo anglosassone, a me ha fatto venire in mente titoli recenti come “Little Miss Sunshine” o “Ti spaccio la famiglia”. Ogni tanto mi sembrava di stare girando una sorta di farsa morale in una provincia pugliese che somigliava al Texas…

"Come si è trovato con Diego Abatantuono e gli altri interpreti?”
"Il film è stato “pensato” per Abatantuono. Il suo personaggio, in sede di sceneggiatura, è decisamente cresciuto rispetto alla commediamessicana di partenza, che era più incentrata sui figli. Diego ha portato al film un tipo comicità che trovo molto efficace e che mi ha ricordato il periodo d’oro della sua carriera, quello che va da “Turnè” a “Mediterraneo”, da “Il barbiere di Rio” a certi film di Pupi Avati. Film in cui recitava da commedia, ma su un registro al contempo realista e cinico. In più, in questa occasione, è alle prese con un ruolo da adulto, da padre che lo rende ancora “più grande”, nel senso che Orson Welles dava a questa parola quando parlava di attori. In particolare, mi ha impressionato la sua capacità di passare in pochi istanti, talvolta nel giro di un sola battuta, dal tono ironico a quello serio, dal sarcasmo alla dolcezza, dal dramma alla leggerezza. Domina la materia con una naturalezza e autorità che lasciano a bocca aperta. Per me l'opportunità di lavorare con un "re della commedia" come lui ha rappresentato un onore e un motivo di orgoglio. Conoscevo Andrea Pisani fin da “Fuga di cervelli” di Paolo Ruffini, di cui ero stato il produttore artistico. Il personaggio di Matteo, il figlio più grande, finisce a lavorare in una ditta di sgomberi abusivi (dove ha come antagonista il bravissimo Nicola Nocella, con cui da tempo volevo lavorare) e questa esperienza lo fa maturare, permettendogli poi di trovare una sua strada autonoma, nonostante sia il successore designato alla guida dell’azienda paterna. Credo che Andrea sia un attore completo e, anche se nasce come comico, è stato in grado di reggere molto bene la parte drammatica, rimanendo comunque se stesso. Uno dei miei contributi principali al cast del film è stato di scegliere per il ruolo di Chiara Matilde Gioli, che avevo visto e apprezzato ne “Il capitale umano” di Paolo Virzì. All'inizio ero perplesso sulle sue capacità di reggere il registro della commedia, ma dopo un provino ho capito che era perfetta per il ruolo della ragazza della borghesia parvenu milanese, tutta mode, "lavoro pago, pretendo" e puzza sotto il naso. Lei, in realtà, è una persona solare e tutt’altro che arrogante, ma ha dono naturale per la recitazione. Con la sua scelta, in effetti, il personaggio è un po’ cambiato. In sede di sceneggiatura, avevamo in mente un personaggio più isterico e lamentoso, ma io ho preferito assecondare la vena spavalda e “maschiaccia” di Matilde, piuttosto che forzarle addosso una maschera che non le apparteneva proprio. Nel film, lei trova lavoro come cameriera e quando il proprietario (l’ottimo Uccio De Santis) le chiede se ha esperienza nei ristoranti, lei risponde d'istinto: “Certo, a Milano quelli che contano li ho provati tutti..”. In realtà, anche Chiara ha una sua fragilità, soprattutto nei rapporti affettivi. Ad esempio, lei vuolesposarsi con Loris, ma forse solo per far arrabbiare il padre, che detesta con tutto il cuore il rampante PR interpretato da Francesco Facchinetti. Nel corso del film sarà proprio il lato affettivo a mettere in mostra le sue fragilità, ad esempio nella relazione con Rocco, il cuoco del ristorante (Marco Zingaro, un dotato attore di Andria, "cervello in fuga" emigrato a Londra). Francesco Di Raimondo interpreta il terzo figlio, Andrea, il più piccolo, studente di psicologia che non ha mai dato un esame e sciorina in continuazione aforismi con il tono del grande saggio. In realtà, le citazioni le trova aprendo a caso i libri che compra senza mai leggere fino in fondo… Andrea trova lavoro vendendo porta a porta alle casalinghe locali un’improbabile alga scozzese. Anche lui, sfruttando la sua genuina e furba tenerezza, troverà il modo di cavarsela, fino all’incontro che gli permetterà di maturare e seguire la sua vocazione. Nella vita, Francesco è uno studente di filosofia, con una limitata esperienza di televisione, ma un’innata propensione verso la recitazione. Ha anche sorprendenti tempi comici, tutti giocati sulla sottrazione e l’understatement. Francesco Facchinetti è Loris e al di là della sua disponibilità e voglia di imparare, c' è stata da parte di Francesco una grande adesione al progetto. La sua comprensibile mancanza di tecnica era compensata da una grande naturalezza nello stare in scena, nonché dalla capacità di relazionarsi con gli altri personaggi in modo molto naturale. Ad esempio con Abatantuono: ogni volta che Diego lo provocava, lui rideva; oppure quando Diego improvvisava – e lo fa spesso – lui riusciva sempre a stare nel personaggio. Tra gli attori mi piace ricordare anche Antonio Catania - che è da sempre perfetto in coppia con Diego - e Niccolò Senni, che è il “gatto" che accompagna la "volpe" Facchinetti. Infine, vorrei ricordare Barbara Tabita, la promettente Valeria Perri, e alcuni eccellenti attori pugliesi come Umberto Sardella, Grazia Mastrapasqua, Giorgio Consoli, Celeste Casciaro, Gustavo Caputo e i Nirkiop, cinque ragazzi di Taranto che fanno dei fortunati corti per YouTube con un taglio molto cinematografico”.
"Come mai avete scelto di girare a Taranto e dintorni?"
"Sapevamo di voler girare al Sud, in una città “problematica”, ma non da cartolina. Soprattutto senza gli stereotipi, anche cinematografici, che si portano dietro nel bene o nel male città come Napoli o Palermo. Taranto e la sua provincia sono uno scenario ideale perché contengono al loro interno tutte le dinamiche che compongono il dramma ma anche il fascino del Meridione: pensiamo alla questione ILVA o al degrado della Città Vecchia - in cui si trova la casa natale di Vincenzo; oppure alle bellezze naturali e al dinamismo di tanti giovani - imprenditori operatori della cultura e del turismo - che cercano di smuovere l’immobilismo cronico di questa parte d’Italia (ragione per cui, ad esempio, un film del genere vent’anni fa si sarebbe potuto ambientare a Bari o Lecce, città che poi negli anni hanno subito una trasformazione, anche urbanistica, decisamente significativa). Non era nostra intenzione né fare un film sociologico, tanto meno di denuncia dei problemi del Sud: c’è chi sa farli molto meglio e con più competenza di noi. Ci interessava invece ambientare la storia in quello che sembra un contesto degradato, per poi invece scoprire al suo interno una umanità varia, ricca di sfumature, con idee e preoccupazioni tutt’altro che scontate. Oltre che a Taranto, abbiamo girato anche a Manduria e San Marzano di San Giuseppe, ma soprattutto ad Avetrana, paese che conosco bene perché da anni vengo al mare con la famiglia qui vicino. Ovviamente l’ho proposta perché conoscevo bene le locations, la disponibilità della gente e perché girare tutto il film a Taranto sarebbe stato logisticamente difficoltoso, per via del traffico e degli spostamenti. Inoltre, Avetrana ha un aspetto urbanistico particolare rispetto ad altri piccoli centri del Sud che diventano subito folkloristici: ricorda un po’ il Texas, con case basse e bianche, circondato da ulivi e cave, con il silenzio solcato solo dal vento e dalle cicale. È un paese modesto, ma non degradato, con un centro storico piccolo e un’enorme “periferia”. È una sorta di non-luogo, perfetto per la nostra storia, che avrebbe sofferto se fosse stata imprigionata in un contesto urbanistico troppo “forte”. Invece, così, è collocata in una sorta di indefinita provincia. Un ambiente sociale e umano con cui i nostri tre protagonisti si scontrano - cresciuti non per colpa loro nella bambagia del Nord ricco – ma anche che permette loro di maturare, di scoprire un modo veramente diverso di affrontare la vita. Tanto che, alla fine, decidono di rimanere a vivere lì. Infine, anche se in maniera secondaria, la scelta è caduta su Avetrana perché ci sembrava bello e giusto offrire ai suoi abitanti un’occasione di notorietà positiva: non è possibile che si parli di un luogo solo in relazione a un delitto!
"Che tipo di destinatari ideali ha secondo lei la vostra commedia?" "E’ un film diretto a un pubblico ampio: appassionati di commedia, ma anche coloro che vanno al cinema per trovare motivi di riflessione. È diretto ovviamente a un pubblico di genitori e figli, e io mi auguro che per una volta possano veramente andare insieme al cinema. E magari tornare a casa a discuterne! A ben vedere, è soprattutto un film che cerca di stare dalla parte dei giovani, non per adularli o sfruttarli commercialmente, ma perché, pur non essendo realizzato da “giovani”, cerca di stare dalla loro parte, di non giudicarli, soprattutto di non fare moralismi. Per carità, i problemi dei giovani esistono, bisogna parlarne, discuterne, ipotizzare soluzioni, ma oltre a detestare le categorie sociologiche (che cosa vuol dire "i giovani"? Sono tutti uguali?) penso che non serve a nulla continuare a dirgli "non dovete fare questo o quello" o "dovete essere così o cosà": che utilità ha sbattergli in faccia frasi che hanno come unico, profondo messaggio “non siete come dovreste essere, siete sbagliati”? Chi sarebbe stato d’accordo - quando avevamo quindici, vent’anni – con chi parlava di noi come dei viziati, dei fannulloni, degli egoisti o peggio ancora dei degenerati? E poi, se i “giovani” sbagliano – ammesso e non concesso che lo facciano – è davvero tutta responsabilità loro o non dovremmo, prima di giudicare, farci un bell’esame di coscienza? Che modelli hanno avuto, in casa prima di tutto?”.
"Che bilancio può fare di questa esperienza?"
"È stato il mio film più “leggero”, mi ha persino fatto ri-innamorare del fare-cinema, anche grazie al sostegno e alla libertà di cui ho goduto da parte dei produttori. Al di là del mio interesse personale, spero che sia un film che possa aiutare ad allargare i confini delle “possibili” commedie da fare, sia dal punto di vista della storia che dello stile e della scrittura. Quando gli operatori cinematografici sentono parlare di "commedia intelligente", non nascondono un certo scetticismo. Eppure negli ultimi anni titoli come quelli di Sibilia, Falcone, Pif o Edoardo Leo, tanto per citarne alcuni, dimostrano che un pubblico nuovo c’è. Si tratta commedie divertenti, ben fatte e ben scritte, che affrontano temi d’interesse collettivo e non sono soltanto occasioni per far ridere: nulla contro quel tipo di film, ma non possono esistere solo quelli. Il mercato, ogni mercato sano, ha bisogno di varietà e originalità, non di omologazione e appiattimento".
Fattitaliani

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