Quando
l’Europa si andava formando, nella prospettiva geopolitica, come
nuova entità statuale (prima
i Sei, poi i Dodici, poi a mano a mano tutti gli altri fino a
diventare Ventotto), passando per la riunificazione della Germania e
fino all’adozione della moneta unica;
mentre l’Unione Sovietica si scompaginava e la Jugoslavia si
dissolveva; qualcuno l’aveva detto.
E non tra i politici e i commentatori di professione. Ma erano alcuni
cittadini, particolarmente attenti. Avevano sostenuto che sarebbero
state abbandonate al loro destino le nazioni in
via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia;
mentre sarebbero state sostenute - e privilegiate - nel cammino
dello sviluppo economico e sociale, traendone maggior vantaggio,
quelle dell’Europa orientale e i nuovi Stati usciti dall’ex
Unione sovietica; nonché quelli dell’ex Jugoslavia. Tutti
fortemente attratti dalla nuova Europa politica.
Sono sicuro
che, questo, era stato detto.
Eppure, non
si sarebbe mai immaginata l’odierna apocalittica tragedia del
trasferimento verso i paesi dell’Unione europea di enormi masse di
emigranti e fuorusciti proprio dai paesi dell’Asia e dell’Africa,
spinte dalla disperazione e attratte dal miraggio (e dalla speranza,
ma per molti anche un’illusione) di una vita dignitosa e rispettosa
da offrire ai propri figli, anche a scapito della propria: unico e
sommo bene personale.
Non io
l’avevo detto. Io che pure mi compiaccio di giocare con le parole,
approfondendone il senso talvolta nascosto.
L’affermazione
verbale è un dato di fatto, indica un evento; ma, nello stesso
tempo, è un avvenimento essa stessa. Un fatto.
L’approccio
del linguista a questo tipo di fatti è, generalmente, un’analisi
grammaticale e semantica. Egli cerca di scoprirne i valori formali,
anch’essi aspetti del reale: concetti e idee, espressi nella
struttura linguistica. In questo caso si evidenzia che “era” è
un imperfetto (infectum
= non-fatto): una condizione di non compiutezza dell’essere. Ciò
che i filosofi più antichi chiamavano il divenire.
Che “stato”, come participio perfetto del verbo essere indica
azione compiuta nel passato il cui effetto dura nel presente. È
l’essere. Sempre
come hanno intuito i filosofi antichi; ed hanno insegnato. Mentre,
che “detto”, participio perfetto del verbo dire, dà la pregnanza
semantica all’enunciato: ci dice, in effetti, che l’azione di cui
si intende dare comunicazione (e approfondimento) è proprio la
parola, il linguaggio.
Sostanzialmente, il pensiero.
Non so
quanto siano importanti queste considerazioni applicate, nella
circostanza, al fenomeno migratorio che sta sconvolgendo il mondo
(come l’ha già altre volte sconvolto nelle epoche passate).
Certamente, se stimolano il linguista ad una forma di
responsabilizzazione, possono richiamare tutti, politici e
osservatori, ad una grande responsabilità. Quella di prendere
coscienza dei processi del divenire
e dell’essere; e di
intervenire, poi, di conseguenza: cioè razionalmente.
A questo
punto sorge la questione morale.
Incentrata sulla responsabilità. Quella delle scelte personali e
degli interventi politici che, evitando da una parte l’indifferenza
e la presunta estraneità, dall’altra lo scoraggiamento e la
dichiarata impotenza (con l’alibi della eccezionalità del
fenomeno), diano risposta alle questioni che ci interpelllano.
Non sono, i
popoli, cattivi.
Oppure, se
lo sono, lo sono nella misura in cui sono cattive le loro classi
dirigenti.
Luigi
Casale