di
Goffredo Palmerini - L’AQUILA
- È stato appena pubblicato, a cura dell’Associazione
Culturale Il
Treo
di Camarda (L’Aquila), con il sostegno della Fondazione Carispaq,
il volume “L’ala
tedesca sul Gran Sasso
- Dal
Gran Consiglio del fascismo al blitz dei parà a Campo Imperatore”
di
Antonio
Muzi,
appassionato ricercatore di storia locale che
apre,
sui 50 giorni che cambiarono la nostra storia e in particolare sulla
“liberazione” del Duce sul Gran Sasso con l’Operazione Quercia
dei tedeschi, una finestra di conoscenza e di approfondimento sul
reale svolgimento dei fatti succedutisi dal 25 luglio al 12 settembre
1943. Per questo suo lavoro l’autore mi chiese di scrivere la
Presentazione al volume. Le mie annotazioni, ora riportate in
apertura del libro, mi auguro illustrino il valore dell’opera e
volentieri le condivido.
Presentazione
È
davvero un bel libro “L’ala
tedesca sul Gran Sasso”.
Antonio
Muzi,
ricercatore e studioso di storia per pura passione, consegna ai
lettori un volume di forte interesse, di scorrevole leggibilità, di
grande utilità specie per le giovani generazioni, per far conoscere
meglio, e più a fondo, uno dei periodi più bui e penosi della
nostra storia nazionale. Sotto questo aspetto l’opera ha
sicuramente un’apprezzabile potenzialità divulgativa. Con la sua
scrittura coinvolgente, curata ed attenta ad ogni dettaglio, a tratti
anche letterariamente significativa, l’autore fa rivivere con
chiarezza gli avvenimenti che interessarono l’Italia dal 25 luglio
1943, con il voto del Gran Consiglio e la conseguente caduta del
regime fascista, fino alla liberazione di Mussolini dalla “prigione”
di Campo Imperatore, il 12 settembre, che portò alla nascita della
Repubblica di Salò e alle drammatiche conseguenze che ne seguirono.
Un
mese e mezzo, o poco più, denso di avvenimenti che cambiarono il
corso della nostra storia, tra miserie morali e fughe dalle
responsabilità, culminate in quell’8 settembre 1943, quando
l’Italia andò allo sbando per l’inqualificabile comportamento
del Re Vittorio
Emanuele III,
del capo del Governo generale Badoglio e del capo di Stato Maggiore
generale Roatta, fuggiti dalla capitale a Brindisi
senza lasciare ordini chiari e precisi alle nostre Forze Armate,
rimaste in balia della reazione tedesca in Italia e nei diversi
fronti di guerra. La pagina più nera della nostra storia patria,
dalla quale tuttavia sarebbe nata la Resistenza e la lotta di
Liberazione, con il riscatto della dignità del Paese, prodromo alla
riconquista delle libertà democratiche e alla nascita della
Repubblica.
Muzi
descrive gli eventi con dovizia di riferimenti, citazioni e
testimonianze, senza che la scorrevolezza del testo ne risenta. E’
nitida ed efficace l’esposizione dei contesti - geografici,
politici, strategici e sociali - che accompagnano gli avvenimenti. La
“narrazione” inizia dal 19 luglio 1943, quando a Feltre
si tiene il quattordicesimo “vertice” tra Hitler
e Mussolini.
Il Duce è infastidito dalle accuse d’inefficienza rivolte dal
Fuhrer all’esercito italiano, è distratto e preoccupato per la
notizia del bombardamento su Roma, ma anche dalla “settimana di
passione” che l’attende, verso quella riunione del Gran Consiglio
del 25 luglio che pensa comunque di poterne governare il buon esito e
che invece segnerà la fine del regime fascista.
L’autore
analizza e racconta i fatti che prepararono quel voto del Gran
Consiglio sulla mozione Grandi, 19 favorevoli e 7 contrari, con
l’operazione di sganciamento della monarchia dal fascismo,
coordinata dal ministro della Real Casa Pietro Acquarone, guidata da
Dino
Grandi
e dai generali Ambrosio e Castellano. Quindi le dimissioni del Duce
da capo del Governo rese al Re, con un generale che origlia il
colloquio dietro la porta. E Vittorio Emanuele III che, mentre gli
dichiara amicizia, maschera al Duce come una premurosa azione di
protezione della sua incolumità quello che in effetti è il suo
arresto. E ancora, la traduzione del prigioniero Mussolini all’isola
di Ponza,
poi alla Maddalena
e infine, il 28 agosto, sul Gran
Sasso,
dapprima alla “Villetta” di Fonte Cerreto e qualche giorno dopo
all’albergo di Campo
Imperatore.
L’arresto di Mussolini, anziché la mobilitazione dei fascisti e
della Brigata M, provoca invece la fuga dei gerarchi, alla ricerca
d’ogni mezzo per raggiungere la Germania. Pare
avverarsi quanto Piero
Gobetti,
morto esule in Francia nel 1926, aveva previsto sin dai primi anni
dell’avventura fascista sulla rivista La Rivoluzione
liberale:
“[…] Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del
fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito
cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo
di attendere dal duce, dal domatore, dal deus
ex machina la
propria salvezza”.
Accanto
o intorno al Duce, nel corso della sua prigionia e fino alla
liberazione, avvenuta il 12 settembre ’43 con la proditoria azione
tedesca “Operazione
Quercia”
concertata dal generale
Student
con il maggiore
Mors,
si aggira una fioritura di varia umanità, personaggi che sembrano
più adatti al teatro delle maschere, tanto sono capaci di recitare a
soggetto. Ciascuno, rispetto ai propri doveri e alle proprie
responsabilità, opera a suo piacimento, omettendo o modificando le
disposizioni ricevute, a seconda delle personali convenienze o
convinzioni. Oppure adottando comportamenti non del tutto compatibili
o appropriati a quelli che la propria funzione dovrebbe osservare.
Eccone un sintetico campionario: Polito, Meoli, Senise, Gueli,
Faiola, ma anche altri.
Sicché
la catena di comando risulta infine svilita, praticamente aleatoria,
come dimostrano i fatti susseguitisi dal 25 luglio al 12 settembre
’43. E l’ordine di Badoglio di non far cadere vivo il prigioniero
in mani tedesche, dunque all’occorrenza di sopprimerlo - ma
Badoglio sapeva pure che Mussolini, in base al patto d’armistizio
firmato a Cassibile il 3 settembre dal generale Castellano, avrebbe
dovuto essere consegnato vivo agli Alleati! - non ha praticamente
alcun séguito, come non ha praticamente séguito per tentennamento
nell’esecuzione l’ordine superiore ribadito dal prefetto
dell’Aquila all’ispettore Gueli di trasferire Mussolini da Campo
Imperatore ad altro luogo sicuro, in vista d’un possibile imminente
attacco tedesco. O come Gueli interpreta a suo modo la
raccomandazione del capo della PS Senise di regolarsi “con
prudenza” in caso d’attacco tedesco, praticamente tradotto
nell’ordine “non sparate” quando il capitano delle SS Otto
Skorzeny,
sceso dal primo degli alianti tedeschi atterrati a Campo Imperatore e
precipitatosi verso l’albergo, va da solo a “liberare”
Mussolini.
Il
“fortilizio inespugnabile”, così definito dal medesimo Gueli per
rassicurare Badoglio, non produce difesa o reazione alcuna in chi è
a sua difesa, diventa una casa aperta ai militari del commando
tedesco venuto dal cielo, che in pochi minuti “liberano”
Mussolini, fanno persino foto di gruppo con i militari italiani,
caricano il prigioniero liberato su un monomotore biposto Fieseler
Storch - sul quale pretende di salire e sale anche Skorzeny, mettendo
a serio rischio il decollo - lo portano a Pratica di Mare e da
quell’aeroporto un aereo trasferisce il Duce e Skorzeny al cospetto
di Hitler. Con esito diverso, perché sarà fatto subito passare per
un eroe, anche Skorzeny ha travalicato a suo modo gli ordini,
rischiando di far fallire l’operazione. Ma era a caccia di medaglie
e di gloria l’avventato capitano delle SS.
Dunque,
il quadro accuratamente descritto nel lavoro di Antonio
Muzi
reca dipinta, per quel periodo e per quegli avvenimenti, un’Italia
che non vorremmo mai più vedere, un’italietta fatta di sotterfugi
e menzogne, di furbizie e fughe dalle responsabilità, di mancanze di
lealtà o insufficienze verso i propri doveri. Un cercare di
arrangiarsi, di adattarsi agli eventi secondo convenienza, dove il
rigore del dovere è perso, il senso del rispetto verso la nazione e
il suo destino, in una congiuntura così drammatica, viene declinato
secondo la personale utilità. Il segno d’una decadenza etica, nel
corpo stesso dello Stato, terrificante. Solo alcuni giorni dopo quel
12 settembre inizierà la riscossa dell’Italia, il recupero della
dignità nazionale. Cominciò proprio dall’Aquila, con i partigiani
che s’erano organizzati sulle nostre montagne, cui s’aggiunsero
alcuni giovani. Nove di essi furono catturati dai tedeschi e
fucilati, dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Accadde il
23 settembre. I loro corpi furono riesumati dalla fossa comune quando
L’Aquila
fu liberata, il 13 giugno ‘44. Sono i nostri eroi, i 9
Martiri
Aquilani.
Il loro sacrificio nello stesso giorno dell’eccidio di Cefalonia.
Ma il contributo dell’Abruzzo sarebbe stato ancor più rilevante,
nella lotta di Liberazione dal nazifascismo, con la nascita della
Brigata
Maiella,
nel dicembre ’43, il primo reparto partigiano militarmente
inquadrato. Nella
storia della Resistenza la
Brigata Maiella è l’unica insignita di Medaglia d’Oro al valor
militare. Fu tra le pochissime formazioni partigiane aggregate
all’esercito alleato e
la formazione combattente con il più lungo e ampio ciclo operativo,
continuando a lottare risalendo la penisola sino alla liberazione
delle Marche, dell’Emilia Romagna e del Veneto.
Gli
avvenimenti descritti in questo volume lambirono in ultimo l’Abruzzo,
L’Aquila e i borghi pedemontani del Gran Sasso: Onna,
Bazzano,
Paganica,
Camarda
e Assergi.
Interessarono il territorio aquilano sia durante la prigionia di
Mussolini sul Gran Sasso, sia nel giorno della sua liberazione, con
il passaggio del lungo convoglio di truppe al comando del maggiore
Harald
Mors.
C’è da annotare, con orgoglio tutto aquilano, il comportamento
dignitoso dei nostri concittadini in servizio presso l’albergo,
anche quando fu mosso da compassione e solidarietà verso il
prigioniero, come nel caso di Lisetta
Moscardi.
Certamente ben diverso da quello della segretaria dell’albergo
Flavia
Magnanelli,
figura equivoca della quale resta tuttora irrisolto un interrogativo,
la sua partenza con bagaglio proprio il giorno precedente l’attacco
tedesco. Come pure spiccano il comportamento di un pastore che si
rifiutò di dare aiuto ai tedeschi malamente atterrati a Campo
Imperatore e il sacrificio delle uniche due vittime dell’Operazione
Quercia, il carabiniere Giovanni
Natale
e la guardia rurale Pasquale
Vitocco,
il primo ucciso e il secondo ferito a morte dall’avanguardia
tedesca presso la barriera posta alla periferia di Assergi.
Concludo
questa breve presentazione con una confidenza, mentre lascio al
lettore il piacere di scorrere le pagine del libro che si legge come
un romanzo, quantunque sia la nostra Storia. Avevo consigliato ad
Antonio
Muzi
uno storico per la redazione di questa Presentazione. Ben altra
competenza che non la mia, modesta, avrebbe potuto valutare meglio di
me il lavoro che l’autore ora mette a disposizione dei lettori. Ma
il suo garbato invito, poi la cortese richiesta che rivelava già una
meditata prelazione, mi hanno fatto superare ogni riserva. E ne sono
lieto. Perché la lettura di questo libro conferma, semmai ce ne
fosse bisogno, quanto sia preziosa l’opera di studiosi appassionati
ed assidui come Muzi, attenti alle vicende che hanno riguardato la
propria comunità ed il territorio dove si vive. Studiosi di storia
locale, a torto definita “minore”, regalano sovente straordinarie
sorprese che arricchiscono la conoscenza storica di una comunità e
la cultura complessiva d’un territorio.
Questo
libro e il suo autore incrociano ampiamente la Grande Storia
d’Italia. La curiosità del ricercatore, qui il caso di Antonio
Muzi,
ha indagato negli archivi alla ricerca di nuovi documenti, ha
provveduto all’escussione dei testimoni dei fatti riferiti e alla
valutazione delle testimonianze scritte, rilasciate dai protagonisti
nei giorni seguenti gli accadimenti o in epoca successiva. Non sono
in grado di stabilire, per via della limitata competenza, quanto di
più questo volume aggiunga alla conoscenza dei fatti fin qui
consolidata. Di certo aggiunge. E lo fa utilizzando una forma
descrittiva che si lascia con piacere leggere, anche per la razionale
divisione del testo. Mi auguro che questa fatica editoriale trovi
attenzione e la buona accoglienza che di sicuro merita. Ne
consiglierei la lettura nelle scuole, proprio per quell’esigenza di
divulgazione storica presso le giovani generazioni, cui ancora sfugge
una capacità di lettura critica del periodo storico descritto nel
volume. Forse aveva ragione Elias
Canetti,
premio Nobel per la letteratura, quando affermava: “Imparare dalla
storia che da essa non c’è nulla da imparare”. O come Antonio
Gramsci
quando asseriva che “L’illusione è la gramigna più tenace della
coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari”.
Eppure, proprio queste negazioni postulano il valore
dell’apprendimento e l’esigenza d’una conoscenza adeguata della
storia dell’umanità.