San Biagio Platani, intervista ai responsabili della casa famiglia "Sole e luna"

È un caldo dopopranzo di quest’ottava di Pasqua quando, attraversando i capolavori delle “Architetture di Pane” di San Biagio Platani, mi porto nella sede della Casa Famiglia per minori “Sole e luna”. Mi accompagna don Giuseppe Carbone, parroco della Comunità di San Biagio Platani, ci attendono la dottoressa Angela di Franco, giovane psicologa educatrice e Giuseppe Montalbano, uno dei tre operatori in servizio. Gli otto ospiti della Casa sono al campo sportivo, ormai pienamente integrati nella piccola comunità, disputano partite con i loro coetanei, giocano a tennis e vanno in palestra. Incuriosito da alcuni recenti eventi a carattere religioso e dalla partecipazione attiva di questi ragazzi musulmani alle attività parrocchiali, mi rivolgo ai loro responsabili per cercare di comprendere.

Sento parlare con affetto dei vostri ospiti, senza disprezzo e diffidenza: è speciale la comunità di San Biagio o sono speciali i vostri ragazzi?
Quando abbiamo iniziato ad ospitare questi ragazzi migranti, che sono minori non accompagnati provenienti da Mali, Senegal, Gambia ed Egitto, non si è registrato tra i nostri compaesani un particolare clima di accoglienza anzi abbiamo incontrato non poca diffidenza, qualche ostilità verbale ed inoltre serpeggiavano dei maligni retro-pensieri, qualcuno vi voleva vedere lo spettro dello sfruttamento, poi, pian piano, vi sono stati timidi segnali di apertura, che hanno registrato una sorprendente inversione di tendenza da quando la gente ha visto i nostri ragazzi riferirsi al parroco e alla comunità parrocchiale. Diciamo che sono speciali entrambi i nostri ragazzi che si fanno voler bene e i sanbiagesi che gliene vogliono.
Mi stupisce che dei giovani musulmani abbiano voluto portare per la Via Crucis cittadina la croce, comprendo che è stata ricavata da un barcone dei migranti che proviene da Lampedusa, ma comunque è un segnale molto forte: forse c’è qualche tentativo di convertirli al cristianesimo?
No. Nessuna forzatura da parte di alcuno. I ragazzi continuano a vivere la loro appartenenza religiosa all’islam, praticano la preghiera rituale e hanno osservato il mese di Ramadan, ma sono stimolati da una grande sete di conoscenza della nostra cultura e della nostra tradizione religiosa. Questi ragazzi sono stupiti dalle nostre tradizioni, non si perdono nulla. Loro stessi hanno chiesto di portare la croce. Crediamo che colgano tutto ciò, quale segno di reciproca vicinanza e solidarietà. In Chiesa, ricordando il dramma del venerdì santo e quello di tanti migranti morti nel Mediterraneo, li abbiamo visti a tratti scossi e anche commossi. Noi rispettiamo le loro abitudini rituali alimentari, siamo stati loro vicinissimi con delle piccole attenzioni di tipo culinario durante il Ramadan e loro hanno apprezzato mostrando sorpresa e gratitudine, per questo uno di loro ci ha scritto una lettera colma di affettuosa riconoscenza.
Dunque la comunicazione è perfetta?
A livello linguistico, soprattutto con gli egiziani che parlavano esclusivamente l’arabo, non è stato per nulla agevole, mentre per gli altri che parlano il francese e l’inglese è stato relativamente più facile, poi con l’aiuto di un’interprete abbiamo avviato la comunicazione. I ragazzi frequentano i corsi di lingua italiana e apprendono con una certa velocità. Al contrario di quanto si possa pensare, prima hanno appreso l’italiano e poi hanno voluto conoscere ed imparare il siciliano. Peraltro sono stati coinvolti in un progetto scolastico che li ha entusiasmati perché hanno potuto rinvenire la provenienza di alcuni termini siciliani dall’arabo. Fin dall’inizio abbiamo insistito sulle regole comportamentali e sul rispetto delle stesse, al fine di ottimizzare la convivenza tra soggetti uguali in umanità ma distinti per ruoli, provenienze, lingue, abitudini, culture.
Angela, come hanno reagito alla presenza femminile? Di otto, tra educatori professionali e operatori, cinque siete donne, e peraltro tu hai una posizione di leadersheap
I ragazzi provenienti dall’Egitto hanno fatto meno fatica a capire ed accettare, mentre per i ganesi, maaliani, senegalesi, è stata un po’ più dura, nella loro cultura si vede che la posizione della donna è più subordinata e defilata tuttavia, compresi i ruoli, i ragazzi manifestano grande rispetto.
Cosa significa per voi lavorare con loro?
Stiamo ricevendo tantissimo a livello umano, di certo ci aprono gli orizzonti mentali allenandoci a cogliere il valore delle differenze. Ci costringono a non chiuderci nei nostri recinti culturali e ad aprirci a panorami inediti. Ci sconvolgono con la forza dei loro racconti: pur così giovani sono consapevoli del rischio, ma per loro partire è una necessità, scappano dalla paura e dalla morte, dal terrore dei “cattivi”, dai saccheggi e dalla guerriglia.
Alfonso Cacciatore


Fattitaliani

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