Bibbia e Corano a Lampedusa, Giuseppe Graffeo: "...la fine di senso della vita stessa"

Giovedì, 22 gennaio, all’Istituto Granata, promosso dalla Caritas diocesana, dalla Fondazione MondoAltro e dal Centro Missionario Diocesano di Agrigento, è stato presentato, nell’ambito della “Giornata del Migrante e del Rifugiato”, il volume “Bibbia e Corano a Lampedusa. Il lamento e la lode. Liturgie migranti” (Brescia, 2014).
Il volume, curato da A. Cacciatore – A. Triulzi - A. Mosca Mondadori, a giudizio degli intervenuti, si presta a diversi livelli di lettura e vari spunti di riflessione che spaziano dall’incontro tra fedi e culture a quelli dell’accoglienza e dell’affraternamento. Di seguito proponiamo ai lettori di Fattitaliani la riflessione del prof. Giuseppe Graffeo, Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo “Dante Alighieri” di Sciacca.
Il libro non è una sommatoria di testimonianze, sembra essere, piuttosto, un viaggio esistenziale, che vede protagonisti tutti gli attori del libro: gli sventurati scappati alla morte, i lampedusani, i volontari, gli stessi autori.
In particolare, gli autori, senza non poco coinvolgimento emotivo, narrano di una tragedia umana, di corpi martoriati e umiliati nello spirito, che si presenta buia, densa delle nubi di un dolore lacerante, avvolta dalla solitudine e dal senso inesorabile della sconfitta, che fa presagire la fine e il nulla.
Non la fine di una, dieci, cento vite; quanto la fine di senso della vita stessa.
Gli autori nel tentativo di cogliere il senso di quei tragici accadimenti, non sono solamente testimoni di storie, divengono essi stessi compagni di un’avventura.
L’inchiostro diviene strumento, diviene mare che culla, che inghiotte le storie di tanti uomini e donne dannati.
Il mare dell’inchiostro, accarezzato in modo tenero ma deciso dagli autori, anima tutti gli spettatori di questa tragica vicenda: gli scogli, le barche e perfino gli occhi spenti e desolati dei naufraghi sembrano partecipare, in modo corale, a così grande sventura.
L’anima di metallo della penna, sotto il peso della mano sicura dell’autore, sembra trafiggere il sonno della notte.
Il buio, ferito dalla luce che trasuda dagli occhi disperati, fugge a gambe levate.
Le parole divengono grido di protesta e di dolore, conclamano la sconfitta umana di dare senso ad una storia, a tante storie, che sembrano non avere senso.
Poi il silenzio. Al grido dell’uomo martoriato e disperato segue il sussurro di una speranza mai sopita. Lo sguardo riverso sulla barca, anch’essa stanca dal peso di tanto dolore ora spazia lontano.
Altre barche si accimano, le luci del Porto di Lampedusa si intravedono, il buio della notte si dirada e, intanto, sorge un nuovo giorno.
La luce del nuovo giorno accende la speranza.
La seconda parte di questa fatica è quella dei grandi interrogativi. Che senso ha tutto ciò?
Segue la lettura e la denuncia di politiche sociali annunziate e mai realizzate. È una disamina che gli autori conducono senza infingimenti e ipocrisie, è una denuncia franca, che non diviene mai odio.
L’ultima e più difficile fatica: gli occhi degli sventurati si alzano verso l’alto e con loro tutte le cose: ciò che era fallace diviene speranza. Il racconto degli sventurati diviene liberatorio, annuncia la fine di ogni tragedia, scuote gli scogli, trasforma il relitto in altare. Le storie e le testimonianze di questi sventurati divengono la storia di ciascuno.
Questo il vero grande miracolo compiuto dagli autori.
© Riproduzione riservata


Fattitaliani

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