Natali, per Fattitaliani il nuovo racconto inedito di Tanina Lipari: la forza generativa del Natale

Il Bene è semplice, gratuito, limpido. Il Bene dona vita. Nel nuovo racconto inedito di Tanina Lipari, che volentieri proponiamo ai nostri lettori, emerge la forza generativa del Natale, mistero della tenerezza di Dio che si fa uomo, mistero dell’uomo che non finisce mai di imparare ad essere bambino.
Alfonso Cacciatore

Natali

Ciccina camminava lesta lesta, la strada, solo due svoltate, le sembrava troppo lunga. Veramente lo era sempre negli ultimi tempi, sempre così era. Aveva fretta di arrivare a casa di sua madre, Gesuina Sansone.
Ultimamente le aveva dato pensieri, ed esattamente da quando le era morto il marito Pepè d’improvviso: glielo avevano riportato a casa morto, dopo che la mattina l’aveva visto andare al lavoro come al solito.
Aveva tenuto duro nel primo giorno, quando la casa si era riempita di gente per le doglianze, cui aveva assistito come una sonnambula, incredula di quanto era avvenuto, convinta che non era suo marito ad essere morto e di non dovere essere lei a piangerne la perdita.
Poi i giorni feroci del lutto nove, nove che caddero su di lei come gocce roventi e gocce roventi le scorsero sulle guance e allora non poté più fermarsi di piangere, sapeva di non poterlo fare: “Tutti li lacrimi di stu munnu sunnu li mei”. E non riuscì più a fermarsi, anzi cominciò a gridare a mazziarisi le carni, urlando: “Pepè, Pepè, comu ti ‘nni isti”.
Pianse a lungo e quasi un anno passò e a Ciccina sembrava che il cielo scuro e piovoso, con il dicembre che si avvicinava, piangesse le lacrime che sua madre non aveva ancora pianto.
Una mattina vicine pietose vennero a chiamarla: “ Ciccì, Ciccì, veni! Prestu ,prestu ,to matri scappò, dissi a Maricchia chi ja a lu cimiteru! Curri curri, chi a la casa ci stamu nuatri”. E lei, preso l’ombrello e coprendosi come meglio poté, corse fino a rimanere senza fiato fino al cimitero. Il guardiano don Niria aveva visto arrivare Gesuina assammarata d’acqua, correre fino al cancello e da lì sempre di corsa si era diretta alla tomba degli Spirticò, che avevano accolto la salma del marito che da loro lavorava.
Don Niria, tirandosi dietro la gamba restia, dopo essersi calcato in testa la coppola, la seguì inquieto e già poco distante la sentì urlare e scuotere l’inferriata, che chiudendo la tomba, le impediva di avvicinarsi: “Pepè, faceva disperata, dunni sì? Picchi ti nni isti? Pepè, Pepè”. E si mazziava e si straziava le mani battendo al ferro puntuto dei decori. Don Niria stette un po’ sotto gli alberi che piangevano anche loro e ad un tratto capì che non erano gocce di pioggia, ma i suoi occhi che piangevano, pure l’occhio fasullo che gli avevano messo dopo l’incidente alla cava. Si mosse raggiungendola, fece: “Donna Gesuì, si firmassi; chi fa ccà cu st’acqua?, Vinissi a ripararisi a li casi, nun pò ristari ccà”.E quella: “E Pepè si? Pure iè ci haiu a stari, puru iè, picchì nun m’interra cu iddru?” E quello: “Vinissi ,vinissi ccà ,appena finisci di chioviri ci turnamu n’autra vota, ma accussi vagnata si pigghia ‘na prumunia!” E l’altra: “Allura sarrà la vota bona chi arrinesciu a moriri e a illu a truvari!! Pepe, Pepe comu aiu a fari? Nun ci pozzu campari senza di tia. Accussi no!”
Don Niria la staccò a fatica dall’inferriata ed era quasi arrivato alle case, quando vide arrivare di corsa Ciccina: “Menu mali chi arrivò, nun sapevu chiù chi fari! Purtamula dintra e davanti a lu focu s’asciucherà un pocu. C’è me mugghieri”. Entrarono in casa portandola a bracccia uno da un lato e una dall’altro e Biniditta la moglie di don Niria venne ad accoglierli: “Ccà, purtatila vicinu a lu focu chi l’asciucamu. Cu stu tempu, o Signuri! Comu fu?” “ Scappà, li vicini m’avvisaru e currivi comu potti. Purtavi sti robi pi cangialla”.
Don Niria uscì e le due fimmine si diedero da fare per ristorarla. Lei li lasciò fare, come una pezza era diventata. “E ora pi iri a la casa?”, fece Ciccina. “Si stai attenta, fici donna Biniditta, avissi a passari donna Annittina, a st’orario va in campagna e chiovi o nivica ci va! Appena la vidi ,fermala!” E Ciccina con l’ombrello si diresse al cancello e li aspettò.
D’un tratto senti il trotto delle mule e capì: “Eccola !” fece, e si portò in mezzo alla strada. La donna alla guida del calesse se ne accorse nonostante la pioggia fitta e tirò le redini: “Chi c’è, fece, cu stu tempo in mezzo alla strata! Chi ci fai ccà, Cicci?” “Oh Signura Annittina, me matri scappò di casa e sutta l’acqua vinni a la tomba. L’avissi a purtari a la casa e nun sacciu comu fari!” “Va beni, grapi stu cancellu ca trasu cu tuttu lu carruzzinu”. Così fecero e si fermò vicino alla porta del custode addossata alla chisuzza nella cui canonica viveva Patri Santo. La signora diede voce e comparve donna Biniditta e il marito che la salutarono con riverenza e tornati in casa con Ciccina, presero la donna, la coprirono con uno scialle nero come poterono e la sistemarono nel posto accanto alla signora Annittina che l’accolse vicino a sè e le pose sulle gambe la sua coperta. Poi girandosi verso Ciccina: “Acchiana, accussì la teni dall’altro lato”. Girò le mule e andarono verso il cancello, seguiti da don Niria che lo richiuse.
Per strata Ciccina tenne abbracciata la madre che rimaneva inanimata. La signora Annittina la guardò con compassione: “Com’è chi era ccà?” ”Scappò, signura. Di sti tempi chiangi chi chiangi o grida .Chi pozzu fari? Comu pozzu firmalla?” La signura: “Ma ti la teni a la casa tua!” La tinissi a lu sicuru e li nichi ti putissiru aiutari !” “Sissi ci l’haiu dittu, ma nun ha vulutu, ma ora nun si nni po’ fari a meno !”. “Eccu, dissi la signura,va beni accussi, puru pi mia la sorti nimica mi fu. Quannu Liboriu si nni iu, puru iè stetti mali, chi ti cridi! Ma c’era la famigghia e c’eranu puru nichi,c’era la proprietà di mannari avanti .E allura mi detti na ‘nnirizzata e tiravi avanti.”
Il vecchio viso rugoso si restrinse e gli occhi cilestrini si chiusero per un attimo. Poi guardò Ciccina:” Tranquilla, li muli sanno chi fari, poi le forti mani tirarono a sé le redini e le mule si fermarono davanti alla casa di Ciccina. Le vicine arrivarono di corsa e l’aiutarono a badare alla madre. Lei voltandosi salutò la signora ringraziandola e dicendole:”Farò comu dissi vossia.!” Ed entrò in casa per dare adienza a sua madre.
Passarono i giorni e Ciccina vide che Gesuina riusciva ora a riemergere dal suo dolore. Le smanie erano passate,ma era come intontita. Si apriva solamente quando tornavano i bambini dalla scuola e le si aggrappavano alle vesti: “Nonna, nonna ccà semu e giù baci e ancora baci, mentre si arrampicavano sulle sue ginocchia. “Fici lu dettatu e li nummari”, fece Cocò. E Martineddra chiù nica: “ E iè ti cuntu la fraguletta di la maestra! La vo sapiri? Ah sì !”, fece vedendo l’espressione sorridente della nonna, ma sicura che non avrebbe detto mai di no. Però poi Gesuina disse: “Chiù tardu! Ora è prontu di mangiari e si mangia, no? Haiu aspittatu a tutti e dui, mangiamu e poi mi la cunti!” Il tempo sembrò migliorare e anche Gesuina sembrò ritornare quella di una volta e volle tornare per un poco a casa sua. L’accontentarono e le vicine promisero a Ciccina che l’avrebbero seguito e accompagnata. E lo fecero.
I giorni di dicembre scivolarono via e a volte Gesuina sembrava chiudersi in se stessa .Ciccina temeva una ricaduta e spesso coi nichi ci tornava specie quando Nofrio suo marito portava verdure dalla campagna, le bolliva e pane fatto da poco e tutto quello che poteva glielo portava. Gesuina non accendeva volentieri il fuoco in casa .il forno non era acceso da molto.
Quella mattina Ciccina bussò: “Mamà grapi, Ciccina sugnu!” Gesuina tirò la maniglia e aprì. A Ciccina si strinse il cuore. Gli occhi di sua madre erano pieni di ombre, le occhiaie scure e fonde mettevano ombre sul suo viso bianco:” Mà, comu sì?” “Bona, Cicci, bona!” “Mamma, mangiasti?” “Sì, sì, Sariddra mi purtà zabbina cu lu seri e mangiavi”. “Mà, avissi a fari furnata, venimi ad aiutari ! Haiu robbi a moddru e tantu survizzu!” “Sì, sì, amuninni!” Salutati i vicini, fecero via fino alla casa di Ciccina. C’era freddo tanto, ma c’era un occhio di sole che rendeva più bella la giornata. Dentro, posati gli scialli, si diedero da fare, alimentando il fuoco dentro il forno. Ciccina aveva già impastato e messo il pane a letto. Ora battendolo Gesuina disse: “Quasi pronto è!” E il forno venne ripulito colla scopa e le braci furono sistemate nel focolare, poi si sistemarono i pani e i chichiri per i nichi nel forno che fu richiuso.
Un pentolino con acqua fu sistemato sulle braci con cipolle e patate e quando erano quasi cotte vi spaccarono le uova,e fecero finire di cuocere. Intanto il profumo del pane cotto cominciò a sprigionarsi dal forno e intanto arrivarono i nichi che urlarono: “Ah, nannò u pani facisti? E i chichiri ci sunnu, veru? Si mangia, si mangia!” E si misero a girare torno torno al tavolo, saltando e correndo e ad un certo punto si tirarono dietro la nonna abbracciandola. Ad un tratto Gesuina fece: “Fermi, fermi, la testa mi gira!” E per fermarli veramente li abbracciò stringendoseli addosso sorridendo: “Ora si và a mangiare.” Ciccina mentalmente ringraziò Dio e li Santi tutti. I soi nicareddri erano riusciti come sempre a farla distrarre, sorridere e confortarla. E mentre mettevano pane, olive, formaggi e le uova rotte all’acqua con patate mangiarono.
Gesuina disse alla nica sorridendo con intenzione: “Niente ti contò oggi la maestra?” “Oh sì, fece la bambina, vuoi sentire a Petrosellina, accussì si chiama la picciliddra di lu cuntu. Nannò sapissi quantu è beddra, ti la cuntu, ah?” E Gesuina: “ Ma sì, sì, ma doppu.!” E la nica in quel momento sembrò leggere nel pensiero e nel cuore di Ciccina che non sapeva come prendere la questione delle cose di Natale.
Già Natale! Stava arrivando ed era tempo di impastare zùccaro, maiorca e uova; preparare il ripieno con fichi, mennuli, miele. Ah li cosi di Natale! Quanta dolcezza e bontà evocavano, già a sbucciare arance l’aroma dolceamaro, penetrante ne faceva sentire la magia, pure loro c’entravano e le loro bucce seccate nel forno e a sbucciarle portavano già quel fresco profumo che si diffondeva nelle case anticipando la festa prossima.
Ma come dirglielo? Perché tornando la santa festa per sua madre si preparava un periodo difficile, riandare colla mente e col cuore ai Natali passati quando c’era Pepè e la famiglia si riuniva al completo perché lui ne era l’anima e il cuore, lui che era generoso e grande amico di tutti e ora era in una fredda tomba. Non era facile vivere una festa così, il cuore se lo sentiva stritolare in una morsa tanto che le sembrava di avere un peso sul petto come se non potesse più respirare.
Eppure la nica fece, guardando il forno che emanava ancora un dolce tepore che permeava la cucina tutta: “Ni Filicia fannu li cosi di Natale e nuatri?” E guardò speranzosa mamma e nonna. Ciccina guardò sua madre che aveva lo sguardo assente. La piccola, dopo averla guardata cogli occhi del cuore, sembrò capire che cosa doveva fare, si alzò e mossa dal grande amore che lei e tutti in casa sentivano per Gesuina, e che sembrò dettarle quel che doveva fare, dire, si diresse dalla nonna, le salì sulle ginocchia e abbracciandola fece: “ Nannò ,li facemu, sinò chi Natali è? Veni lu stessu lu Bammineddru ‘nta la grutta e nuatri già la ficicmu, ci misimu li pasturi, lu firraru, la massara, lu spirdatu di lu pirsepiu. Ma ni mancanu ancora: pastura, armali e li tri Re! E comu ci li mittemu li cosi duci allatu? Tu li sai fari megghi di tutti e iè ci lu dissi a Filicia e a l’autri cumpagni: “Tutti boni sunnu li cosi duci, ma li cosi di Natali fatti di me nanna Gesuina sunnu li chiù megghiu di tutta la terra! Oh nannò, li facemu,veru? E tu m’imparerai a falli comu a tia veru? Avanti chi mi dici sì, nannuzza beddra di lu me cori!” E l’abbracciò .
E Gesuina fu sul punto di piangere tanto quelle parole le avevano bucato il cuore, i piccoli non dovevano soffrire ancora, aspettari la Santa Festa nella tristezza, portarsi la pena di una famiglia infelice nel loro piccolo tenero cuore. E tra sé e sé pensò: “Abbasta la mia di pena, li nichi no! Puru Pepè di ddrà ‘ncapu nun vulissi e mi nni vorrà. No, no basta accussì!” Così stringendosi la piccola al cuore forte forte e sorridendole le disse: “E va beni, certu, li facemu e tu, fece segnandola a dito, tu te l’impari, sì? Bene ah?” “Sì, sì nannò, grazzi! E di colpo puru lu nicu sentendosi guardato corse ad abbracciarla: “Ah, nannò, bonu è accussì, mi piacinu puru a mia, ma pi mangialli! Pi falli, nun sugnu bonu! Masculu sugnu!!” E rise, pure la sorella rise con lui;guardarono la nonna che sorrise pure lei come se un piccolo sole le fosse spuntato in cuore e poi fiorito sulle labbra col sorriso.
Anche Ciccina sorrise pensando tra sé: “E’ fatta, la nica trovò la via per farsi ascoltare da mia madre, meglio di mia che non sapevo di dove pigliare il coraggio di parlargliene.” Così qualche giorno dopo Ciccina e sua madre Gesuina discussero su quanti viscotta dovevano fare,quanto occorreva di farina saimi, simula e altro. Ciccina che era sempre precisa fece il conto, tre ,sei, nove di farina, tanto di zuccaru e saimi in quantità uguali, l’ova al momento: “Li ficu ci sunnu, chiddri a cucchia e chiddri sfusi, puru chiddri chini di dintra, meli ni lu darra’ don Santiddru e qualchi vrisca cu lu meli pi li nichi e pi Nofrio che liccu è, comu li nichi e chiassà!! Poi li mennuli chi sunnu ni lu sularu, cucuzzata, zuccaru ‘mparpabili. E li viscotta di simula, mà, Nofrio li voli e s’hannu a fari. Videmu!!”
Si divisero i compiti. Gesuina ,preso un sacco di robusta tela, andò al mulino delle Mole. Lì Pepè aveva lasciato furmento abbondante a la ricoita e poteva prenderne al bisogno. Così scese per la strada, che andava verso Porto Palo fino allu Firriato e da lì girò a destra, fatti pochi passi c’erano gli scalini e il grande portone. Salì e si trovò nel grande cammarone dal soffitto altissimo, pieno di macchine. L’omo di fatica, don Nenè la vide e fece: “Donna Gesuina chi voli?” “ Farina di pani e maiorca.” “E quanti chila ni voli?” “Facemu novi e sei”. “E scusassi, comu si li po’ purtari?” “Va beni, mi portu li sei chila e l’autri mi li porti doppu?” “Sissi,pi vossia chistu e autru!”
L’aria lì dentro era piena del profumo della farina denso e dolce e sotto le macchine grandi sacconi di robusta tela ricevevano la farina molita di vario tipo e la crusca, e le farine cadendo in parte svolazzavano per aria specie quando si prendevano i vari quantitativi di farina. Così l’uomo riempì i sacchetti delle quantità richieste e poi fece: “Segnu tantu?” “Sì”, fece Donna Gesuina, prendendo il sacchetto più leggero e riprese la via per casa sua. Per strada passò da Simuni il macellaio grande e grosso, ma dal cuore tenniro: “Donna Gesuina beddra che ci pozzu serviri?” “Simù, mi servinu tri chila di saimi!” “Donna Gesuì, issi ni mè mugghieri chi la pripara e ci darà chiddru chi voli!” E così Gesuina salutatolo, andò verso lu curtigghiu longu di la posta e sistemò il problema della saimi.
Poi andò verso via Mazzini e dalla cantonera vide la vitrina della Sicarrara piena di pastori e statuine per il presepio. Pensò a li nichi, e alla gioia che avevano nel farlo e ci andò. Entrò nel negozio preso dal forte odore del tabacco. La proprietaria la salutò, si conoscevano da molto e lei ci andava con Pepé, quando erano per la via del Popolo e lui aveva finito il trinciato o le cartine. Fu presa da un colpo di nostalgia, una fitta la prese al cuore e gli occhi abbunnarono di lacrime. Donna Francisca vide e capì: “Donna Gesuina, in che cosa la posso servire?” Lei cercò di ricomporsi, pensando anche al motivo per cui era entrata: pigliare le statuette per il presepio per i nichi. Così disse : “A li nichi ci servino li statue pi lu persepio, i pastori che ancora non hanno, armali, no lu voi e lu sciccareddru però.” La proprietaria: “Vinissi a vidiri e poi dicidi!”.Così dicendo aprì la vetrina interna. “Ah!” fece Gesuina, “Stu pasturi cu la pecura ‘ncoddru e l’autra a li pedi, la fimmina cu l’oca, lu vecchiu ammola forfici e cuteddra, lu panitteri, l’ogghialoru, stu gaddru d’innia, lu porcu e li gaddrini cu li puddricini. Ah, un pocu di fogghi pi fari lu celu!” Pinsò: “Li casi li facemu cu lu cartuni, la stiddra ‘ncapu la grutta la facemu di suvaru, chiddru di li busciuni di lu Voscu”. Abbastavano. Pagò e se li fece incartare e li misi sulla farina e salutando usci.
Andò a casa e posò la farina, prese il pacchetto e se lo rigirò tra le mani e le venne un colpo di malinconia: con Pepè l’anno scorso avevano comprato tante cose per il Natale poi la messa di mezzanotti, il pranzo tutti insieme e ora… Si riscosse e mise lo scialle e uscì col pacchetto ancora tra le mani, chiuse la porta con la chiave, se la mise in tasca e via per andare da Ciccina, l’involto sotto lo scialle. Arrivò che era stanca, ma sicura che i nichi sarebbero arrivati fra poco. E la sorpresa, la sorpresa!!! Ciccina la vide agitata: “Mà chi c’è?” “Nenti, nenti! Accattavi li pasturi,fece mostrando il pacchetto, pasturi e armali pi lu pirsepio pi li nichi” “Oh mà, ma quantu spinnisti?!” “Nun ci pinsari! Cosi di nenti sunnu!” fece agitando le mani, “Accussi li nichi sunnu cuntenti,Cicci almenu iddri!!”
Prima chi Ciccina rispondesse sentirono i passi affrettati dei nichi:”Mà, mà ccà semu!”! Ed entrarono di corsa, poi vedendo Gesuina:”Nonna, nonna ccà si!” “Vinni a truvarivi, mali fici?” fece lei ironica. “No, no, risposero in coro i due, nun t’aspittavamu. Com’è chi vinisti?” “Si chiuditi l’occhi vi lu dicu.” I due, presi dal gioco, annuirono e chiusero gli occhi. Gesuina mise il pacchetto tra le loro mani. I due toccarono, tastarono attentamente: “Nonna, ma chi è?” “ Nun lu capiti?!” “No, no, chi è?” ripeterono. “Allura grapiti l’occhi!” E visto il pacchetto, si guardarono “E chi sarrà?” “ Grapiti,!” fece ancora Gesuina. “Grapu!”, fici lu nicu. Lo posò sul tavolo, cominciò a strappare la carta di giornale e aperto l’ultimo foglio, vennero fuori i pastori, gli armali, i tre Re. Gli occhi dei nichi sfavillarono e corsero dalla nonna: “Tutti nostri?” “Si”, fece lei, “Cuntenti?” “Oh sì , nannò, filici comu du pasqui, fece la bambina. “E li sistemamu subito,n’aiuti?”
E si diressero verso la sala di mangiari. Lì nell’angolo vicino alla credenza c’era un tavolo piccolo: era già parato con montagne e capannette, arboli stenti, una sorgente tra i sassi fatta di carta argentata sembrava far scorrere acqua, viottoli di erba e muschio, terriccio e brecciolino, la capanna con Maria e Giuseppe e dietro ad essi lu voi e lu scicareddru. “Nonna, aiuto ci voli! Li sistimamu ora!” Si tolsero il cappotto e iniziarono. “Nannò, comu fa la poesia: “Bammineddru picciliddru, lu mè cori lu voli iddru, iddru chianci chi lu voli, Bamminedru arrobba cori!” Gesuina, sorridendo, in pace con sè stessa e il mondo, disse tra sè baciando le loro testoline: “ E vuatri arrubbastivu chiddru mè!” E le parve di sentire nel frattempo la voce di Pepè nelle orecchie e nel cuore: “Gesuì, u Signuruzzu Bamminu, chi nasci e n’arriva pi Natali, ni porta un cori chiù tenniru, amuri e bontà. Iu nun ci sarrò, ma tu hai ancora tantu beni di dari a Ciccina,a li nichi, a tutti. E lu beni chi ti vogghiu, forti comu a chiddru chi ti vosi ni li jorna chi stettimu ‘nsemmula, ti lu dugnu ancora e ti lu lassu picchì accussì lu poi dari ancora. Chistu è lu Natali veru; Gesuì!” E lei, col cuore e la mente pieni di altrettanto amore, sentì dentro sé tutta la pace che lu Bamminu sapeva portare e disse: “Sì, Pepè , si!”

Tanina Lipari
© Riproduzione riservata


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