L’AQUILA
- E’ stato presentato martedì sera, 9 dicembre, nell’Aula
consiliare del Comune dell’Aquila, la silloge poetica “E
cambia il passo il tempo”
(Robin edizioni, 2014) di Anna
Maria Giancarli,
un’intensa testimonianza in versi dedicata alla Città, dopo la
tragedia del terremoto del 6 aprile 2009. Il volume contiene
bellissime fotografie di Luca
Bucci.
Presenti il sindaco Massimo
Cialente
e l’Assessore alla Cultura Betty
Leone,
la silloge è stata presentata con un’introduzione critica di
Gabriele
Lucci.
L’Aula consiliare impreziosita da un’installazione di Lea
Contestabile,
e da un toccante video sulla recente mostra dell’artista al
Palazzetto dei Nobili, le declamazioni dei versi per l’eccellente
recitazione di Ugo
Capezzali
e della stessa Anna
Maria Giancarli,
hanno accompagnato le liriche le struggenti note al violino del
Maestro Sabatino
Servilio,
in un’efficace sinestesia di arti. Qui di seguito il brillante
intervento di Gabriele
Lucci,
una delle migliori intelligenze della Cultura aquilana, e non solo.
LA
PAROLA, LE PAROLE
di
Gabriele
Lucci
La
parola, le parole. Proviamo a cercare il significato di una parola e
lo troviamo facilmente su qualsiasi vocabolario. Una parola può
assurgere a più significati, tutti previsti e prevedibili. Come
cuore ad esempio. Dal nostro vitale organo fino al cuore del
problema, un colpo al cuore, eccetera. Tutto preciso, con un
possibile ricorso a quella parola seguendo regole, norme, talvolta
consuetudini affastellatesi nel tempo. Tuttavia viviamo una stagione
in cui la parola viene tradita, alludo al suo uso e dunque al suo
profondo significato. Ha fatto bene Mentana a rifiutare di utilizzare
il termine “bomba d’acqua” riguardo recenti alluvioni.
Sdoganate da pioggia battente, perché non schioppettate d’acqua?
Che dire poi della reclamata “cattiveria” agonistica da parte di
commentatori di calcio al posto di determinazione, grinta? Magari di
una persona realmente cattiva diremo che è determinata. Non
dimentichiamo però le montagne killer (figurarsi! …di fronte a una
natura così poco interessata alle nostre umane vicende). E non
tralasciamo nemmeno la cultura anteposta a mille altre parole:
cultura dell’ospitalità, cultura della terza età, cultura della
navigazione e così via. Finiremo per dire io ho andato al mercato,
tanto che fa, sempre al mercato sono arrivato, no?
E
finiremo anche per svuotare le parole di tutta la loro ricchezza, del
loro patrimonio genetico. Le utilizzeremo ripetendole all’infinito
fino a sottrarre loro ogni possibile significato, fino a dissolverne
l’identità. Un vacuo, meccanico e reiterato uso da sconfinare
nella pornografia, una pornografia delle parole. Ogni parola, invece,
ha per così dire, un suo portato erotico, esattamente il contrario
dunque della pornografia. Attende di essere coniugata con altre
parole, e tutte si attraggono reciprocamente. Parole, cioè, solo
apparentemente ferme e inchiodate nel vocabolario ai blocchi di
partenza, un po’ come gli elementi chimici nella tavola periodica
del russo Mendelev. “Na” quale è il sodio, “Cl” il cloro. Ma
se si uniscono abbiamo NaCl, il cloruro di sodio, il nostro comune
sale da cucina. Le parole, opportunamente messe insieme, disvelano
tutto il loro potenziale come nel caso della poesia di Anna
Maria Giancarli,
messaggera del sogno e del divenire, di un futuro e di un passato ad
altri imperscrutabili. Parole e suoni che ai soli poeti come lei è
consentito di disporre a piacimento, contro qualsiasi norma, nel loro
arcano dormiveglia e sempre sospinti da un genesiaco Eros.
E
questo, anche quando la materia è dolorosa, come nel caso della
raccolta di poesie “E
cambia passo il tempo”.
Forse vado contro corrente appellandomi al desiderio, all’ Eros
padre delle nostre azioni, ma è a questo che ho pensato quando ho
iniziato a leggere le sue poesie. Perché la forza vitale emerge
comunque e quei versi reclamano vita. Non è forse Rainer
Maria Rilke
a ricordarci come l’esperienza artistica è talmente prossima a
quella sensuale, al suo concepimento e alla sua gioia, che i due
processi sono propriamente forme diverse di un medesimo desiderare?
Ma la poesia di Anna Maria ha anche una sua funzione catartica,
purificatrice, perché con l’uso sapiente delle parole è la
risposta al sempre maggiore atrofismo del vocabolario comune, a un
depauperamento della lingua sempre più orfana di sfumature, alla
forzata semplificazione di una ben più complessa realtà. Anna Maria
è la discendente diretta di Marcel
Duchamp
e di Robert
Rauschenberg.
Si parte dagli Objects
trouvés
come una ruota di bicicletta per dire che quella non è solo una
ruota di bicicletta, come una pipa non è solo una pipa. Oltre il
senso comune per avventurarsi nel senso della vita. Oltre il
“normale” senso delle parole per arrivare alla polivalenza
semantica, all’ambiguità, alla moltiplicazione dei significati.
Seguire
Anna Maria ci aiuta. Soprattutto in tempi di relativismo assoluto. Ci
aiuta a decodificare una difficile realtà. Sono tempi in cui è
importante ricordare come ogni affermazione debba trovare una sua
giustificazione. Un improprio uso della parola, se non addirittura
una parola sbagliata, può aprire le porte a tanti guai, sapete?
Breve deriva aneddotica. Un ambasciatore, in occasione di una serata
di gala nella sua diplomatica dimora, nell’atto di ricevere un dono
da parte della moglie di un diplomatico straniero si lasciò andare
alla consueta frase: ma non doveva …aggiungendo: ma perché si è
voluta masturbare
così! E poi imbarazzato e paonazzo in volto: volevo dire disturbare
così…
Il tutto sotto gli occhi atterriti dei presenti. Ma per fortuna sua i
due ospiti non spiccicavano una sola parola di italiano. A questo
punto non voglio pensare cosa sarebbe successo se avesse fatto
ricorso al noto adagio: ambasciator non porta pene.
Dicevamo
delle parole e dei versi di Anna Maria. Le parole per lei sono in
attesa di epifanie poetiche. Per arrivarci il viatico non è sempre
agevole, come si può capire dal movente tragico che l’ ha spinta
oggi alla scrittura. Il fato, anche stavolta, le ha richiesto una
vita attiva e contemplativa, non però vissute separatamente e così
osservate nell’antica Grecia, ma contestuali. Una unificazione
dell’anima, del sapere, del fare. E non poteva essere diversamente
nel post-sisma. Nelle poesie di Anna Maria si rintraccia, soprattutto
con la complicità del terremoto, questo assemblare, questo unicum.
La continua riflessione, consapevolezza, su ciò che è accaduto e le
è accaduto, il voler tornare dopo “La parola indocile”, altri
suoi testi scritti dopo il sisma, ai luoghi del dolore. In questa
nuova raccolta corredata da poetiche e belle fotografie di Luca
Bucci,
anche quella straniante e metafisica di copertina, Anna Maria rivolge
l’anima a un’Aquila tutt’ora “ingabbiata e buia in attesa di
rinascere, metafora di un declinante Paese. Una città che è
sospesa, un tempo metafisico l’avvolge e s’impadronisce del suo
corpo mutato”. Sembra non esserci scampo nemmeno per il poeta, per
la poetessa.
Ma
allora di fronte a tutto questo sorge spontanea una domanda: che
fare? E via via aguzzando il pensiero arriviamo a chiederci che posto
occupa la poesia nella pratica letteraria, anche quella di Anna
Maria. Quello morale, religioso, quasi divino come volevano gli
antichi? Che risposte possiamo aspettarci? Insomma, qual è il senso
ultimo dell’ attività poetica? Chi è il destinatario e quale la
posizione del mittente? Difficili domande per altrettante difficili
risposte. Ma a me basta una risposta, che è tutta nelle
considerazioni della stessa poetessa quando dice: “le mie parole,
pertanto, vogliono essere un caldo materiale ricostruttivo e legarsi
a quelle di coloro che ritengono insopportabile tale declino
nazionale”. Questo vale per dirla con lei solo quando “il tempo
s’inchioda”? No davvero! Questa liaison,
questo legarsi a destini altrui, queste complicità nel dolore
avvengono sempre con il medium di una testimonianza e in questo caso
per di più poetica. Ecco l’essenza, il frutto, che risiede
nell’insorgenza, nell’emersione di un sentimento e nell’avere
la capacità e la fortuna di condividerlo. Dare forma a una
espressione emozionale ed emozionare trasferendola ad altri. Perché
alla fin fine è importante ciò che con amore hai fatto e con chi lo
hai condiviso.
Sono
sicuro però che Anna Maria sia consapevole come quello della poesia
sia un moto perpetuo, sempre sospinti dal bisogno di trovare un
baricentro dell’anima. Un baricentro che tuttavia si sposta di
continuo e costringe a precari equilibri. Sono anche certo come lei
sia altresì consapevole di quanto il terremoto abbia costretto tutti
i sopravvissuti ad un allenamento alla morte, in
primis
chi ha perso i propri cari. Ci hanno lasciato anche le cose divenendo
macerie e noi siamo rimasti, un domani sarà il contrario, noi ce ne
andremo e loro resteranno. Al netto c’è poca differenza.
Bene,
ci avviamo alla conclusione e mi rendo conto che, per dirla ancora
con Rilke, niente può avvicinare meno un’opera d’arte quanto un
discorso critico. Ma penso anche che non possiamo chiudere, in un
periodo tra l’altro natalizio, se non con un segno di ottimismo. E
allora, parafrasando Jerry
Lewis
quando suggeriva l’atteggiamento da assumere in occasione
dell’arrivo in città dei clowns circensi, diciamo: dobbiamo essere
felici quando nascono o arrivano nella nostra città i poeti, sono
loro a suscitare emozioni, a farci vibrare menti e anime, a indicarci
la strada, a sorreggerci. A loro potremo chiedere aiuto per
interpretare i segni e così avvicinarci al significato
dell’esistenza, la nostra di eterni viandanti. Rendiamo allora
omaggio alla poesia e alla poetessa Anna
Maria Giancarli
come lei ha reso omaggio alla sua città e alla sua comunità.