"Nela", leggi su Fattitaliani l'inedito racconto di Tanina Lipari

Che la civiltà contadina conoscesse le distrette di una vita dura, sempre segnata dall’incertezza dell’esito dell’annata agricola e dalla possibile inclemenza delle condizioni atmosferiche, è noto ai più. Tuttavia, tra tanti rigori invernali ed estati torride non mancavano primavere dolci e autunni temperati. Nela, il racconto di Tanina Lipari, che nella civiltà contadina di Sicilia ha il suo ambiente genetico, ha la capacità di infondere una inusuale dolcezza che, ad onta del pregiudizio e del sentire diffuso, spezza il ritmo dell’uniformità dei giudizi.
Niculinu, grande protagonista della narrazione, comanda al cuore, squarcia antichi tabù, frantuma le convenzioni. È l’antitesi del maschio violento. È l’uomo che, in anticipo su ogni tempo, non riduce la paternità a mero atto biologico, né il matrimonio a pura convenienza. È un tiepido raggio di sole su una pelle mai vecchia per essere accarezzata.
Nela, titolare del racconto, tristemente provata e giustamente impaurita, trova in Niculinu la tenerezza che salva.
Alfonso Cacciatore

Nela

La mattina si presentò confusa: sui tetti nuvole bianche da cui traspariva il cielo, ora grigio, ora azzurrino sbiadito. Non c’era un filo di vento e le punte degli alberi che superavano i tetti, erano immobili come le povere piccole piante nel cortile interno. L’aria era ferma, soffocante, dentro le case mancava il respiro, anche perché i locali erano angusti, i tetti bassi, porte e finestre erano piccole aperture. Il vecchio Niria steso sul suo letto era senza respiro, già era di suo per la malattia ai polmoni, in più il locale era piccolo e soffocante; si muoveva a stento con piccoli movimenti convulsi. Poi d’improvviso sospirò a fondo: da fuori lo raggiunse il suono del friscaletto e le fresche e vivaci note della tarantella siciliana che lui amava tanto. Saru Menna era fuori al suo deschetto di calzolaio e al suono improvviso si destò dal torpore che l’aveva preso e col martelletto batté il tempo sulle suole delle scarpe su cui stava lavorando. Con una scoppolata fece saltare in aria Neli, il giovanissimo aiutante, pareva quasi addormentato, ora si grattò la testa dai capelli rapati a zero per via dei pidocchi, che la madre aveva eliminato col petrolio preso dal lume di rame scurito dal tempo, che lei non aveva né tempo né voglia di ripulire: la rina chi la prendeva? E i limoni servivano per mangiare, altro che pulire.
Poi per quella casa, dall’aria molto provvisoria, che le aveva lasciato il vecchio Pepè per i suoi servizi, poco si poteva fare per rimediare ai danni più grandi, pavimenti di terra battuta, travi sconnesse, canali rotti, cannicciato ormai scoperto, mura con fessure che lasciavano entrare vento e pioggia, calura.
Lei poi per mantenere i figlioli doveva lavorare per potere portare a casa qualcosa per sfamarli o chiedere qui e là un pugno di fave o fichi, o una nuciddra di salsa secca, un po’ di frumento, una lannuzza di olio, poi erbe di campagna o qualcos’altro, sempre alla carità della gente si affidava, alle case piene di ogni bene, cariche di tutto alle cui porte si presentava per fare dei lavori: caricare, scaricare derrate nei macaseni, lavare pile enormi di roba sporca, che lo sporco era di tutti. Andava a raccogliere spighe, cotone, poi le mandorle ad agosto, poi le smallava, poi a settembre vendemmia e poi più tardi le olive, aranci e mandarini; non aveva sosta anche perché di fame ce n’era tanta e molti cercavano un lavoro, lei si arrangiava come poteva e andava avanti col pensiero fisso a ciò che doveva calare nella pignata per riempire le pance vuote e affamate dei tre suoi figli e viveva colla paura di non riuscirci che la prendeva di notte, quando le ossa rotte piangevano e gridavano per la stanchezza, rompendo il sonno pesante come un macigno provocato dal lavoro ininterrotto.
Fortuna che il vicino, Don Nicolino, uomo solitario, ma disponibile, che ad onta del suo nome, era grande e grosso, faceva il macellaio, e, quando macellava, le portava scarti, pelli, parte di cuori, polmoni, fegato e le diceva: “Tè, serviranno.” E lei con le pelli tappava i buchi grossi delle pareti o ne faceva calzature rudimentali con spaghi e pezze. Il resto carne, interiora ed ossa lo cucinava e sapeva farlo ad arte ed allora quando don Nicolino rientrava gli faceva trovare la pignata grossa con le parti migliori cotte a puntino. E lui: “Ma picchì, ti li purtavi pi chissu? Dalli a li nichi”. Si schermiva quanto poteva, poi cedeva alle sue insistenze.
Solo era, senza moglie o familiari stretti, parenti alla lontana, sì, ma non si parlavano più da anni, tanti anni. Così, preso dal profumo e dal pensiero che niente aveva di pronto, prendeva la pignata ed andava a sedersi con la sedia dinanzi al vecchio tavolo che teneva sotto la pinnata e così com’era, sporco e stanco, iniziava a mangiare con soddisfazione tirando sospiri di contento, con mugolii che i bocconi soffocavano appena, mentre la pancia si riempiva di calore e senso di appagamento; buona era Nela a preparargli da mangiare e lui sentiva di approfittarne, di sottrarre a quei nicareddri quanto aveva loro portato. Quando finiva, diceva a Nela: “Sai comu finì? Lu sceccu lu porta e lu sceccu si lu mangia. Ah, chi omu sugnu!” E Nela: “Don Niculì, chi dici? Ci sugnu sempri a debitu, mi porta accussi tanti cosi chi senza nun sapissi chi fari”.
Il giorno appresso Nela andò a Risina pi li mennuli, li nichi a la casa cu l’occhiu di Neli chi addrizzava chiuviddra, Saru Menna li doveva usare per le scarpe di don Cocò, tanto nuovi parevano e quel pillicunazzu se lo meritava così. Neli intanto si pigghiava li scuppuluna e colpi di gomiti nei fianchi quando don Saru tirava lo spago, dopo averlo infilato nei buchi fatti con la lesina, e tirando, tirando finiva per colpirlo: “Allestiti, perditempo! Sdrivigghiamuni!” E lui pestandosi le dita a più non posso, si allistia, si allistia, vita buttana, ma lo diceva tra sé e sé. Se l’avesse detto a voce udibile, don Saru gliele avrebbe dato di santa ragione.
Don Nicolino passò e salutò: “E buongiorno sia, don Saru!” “Puru a vossia”, fece don Saru. Don Nicolino si avviò fuori paese e dalla figurella di San Gisippuzzu tirò verso dove c’erano li stalluni e lì di fronte il macello. Entrò dal cancello di ferro più esterno, dove si era già radunata tanta gente e Piddruzzu nicu, tunnu, curri curri, gli rotolò tra i piedi: “Ura è don Niculi’, n’avemu ad allestiri!” “Ah, sì, sì! Sintitilu, sintitilu”, disse rivolto agli altri. E dirigendosi all’interno iniziarono la fatica del giorno. Aiutato da Piddruzzu, occhi cilestrini, viso scuro sprizzante simpatia, anche per via del carattere allegro, procedettero anche a spellare con l’aiuto di altri gli animali macellati. Piddruzzu pulì le pelli e li stese, poi aiutò don Nicolino a tagliare le carcasse a metà con la sega, poi a quarti; poi mise in una conca cuore polmoni, giseri, e in un’altra le interiora e le budella per le salsicce. Mentre tagliavano venne don Cocò, arrisinato, ma notoriamente omo liccu di fimmini, che volle parlari a don Nicolino: “A l’aricchi du’ paroli, li cosi di l’armali sunnu pi mia, ah?!” Don Nicolino che lo conosceva da molto, lui e le sue manie gli rispose tra pacinziusu e beffardo con un sorriso che andava dalla bocca ai grandi occhi marroni: “Ma sì, pi vossia, sulu pi vossia. Fannu miraculi, eh!” E mentre l’altro ammiccava, tronfio delle sue presunte o reali prodezze, glieli fece incartare da Piddruzzu e intascò i soldi che quello gli diede, poi rivolgendosi a Piddruzzu: “Metti di lato ‘nta na cunchiteddra qualchicosa: ossa, trippa, cosi di dintra.” “E pi mia?” fece Piddruzzu, “li vudeddra pi li stigghiola!”, e il giorno era quello giusto per la richiesta, pure capre, pecore ed agnelli qualcuno ne aveva ammazzato. Così disse al suo aiutante: “Sì, sì, ma lassali ‘nta lu cammarinu, si li trovanu, si li portanu e li poi circari quantu voi.” Così rimasero e Piddruzzu eseguì.
Fuori c’erano carretti, carrozzini dei compratori e macellai del luogo e di fuori, alcune persone venivano per bere il sangue fresco da capaci bicchieri, per motivi di salute. Venne anche donna Trisina che ne volle un bel po’con i budelli. Ne faceva un sanguinaccio con cannella, cioccolato a pezzi, poi cotto in pentola e dopo tagliato a fette e mangiato velocemente da chi ne aveva la possibilità o la furtuna come dicevano i liccuti.
Tra i presenti c’era pure il vecchio Stroppa, che girava il paese vendendo articoli per le donne, in una cassetta, tenuta appesa al collo mediante una fascia: automatici, bottoni, aghi, filo, pettini di vario tipo, forfici, forficini, spilloni ed altro. Di mattina niente ancora aveva venduto, ma voleva portare a casa un poco di fegato e non avendo soldi, disse a don Nicolino: “Lu ficatu pi mia, sordi nun n’aiu, ma ci pozzu lasciari stu sciallettu, niuru, cu ricami, beddru è, roba fina!” Don Nicolino rise: “E chi mi nni fazzu? Fimmini nun n’aiu!” “Sì”, fici Stroppa, “ma lu putiti rigalari a cu vuliti, sempri roba bona è!”
Così, dopo varie insistenze il vecchio andò via col fegato e don Nicolino rimase con lo scialletto tra le mani imparpagliato: “E chi ni fazzu ora?” Poi intercettato lo sguardo tra curioso e un po’ sul derisorio di Pinuzzu passò nel cammarino e piegandolo come poté lo infilò nella tascona interna del pastrano. Se ne scordò fino a quando tornando verso casa, e sistemandosi il pastrano senti qualcosa e con la mano corse all’interno e toccò lo scialletto e ripensò: “Chi ni fazzu?” Continuò per la strada a passo lesto, salutando, scambiando qualche battuta. La sporta piena di carne gli sbatteva contro la gamba. Entrò nel cortile. Don Saru lu scumpunì: “Salutamu!” E don Nicolino: “E puru a vossia”, e tirò per l’angolo per la casa sua.
Nela tornava allura allura dalla campagna e purtava una sacchiteddra china di mennuli per i nichi che se le disputarono: “Calma, calma, tutti vostri sunnu e nuddru vi li leva”. Mentre si avvicinava, la faccia giovane, segnata dalla fatica, don Nicolino uscì di casa e le disse: “Bona jurnata fu? ‘Nsumma, poi vi cuntu.!” Tirò verso casa, e don Nicolino mentri era ancora sulla soglia le diede la carne che aveva portata e lei disse: “Priparu subitu, siti nvitatu”, così lei preparò le interiora a pezzetti, con cipolletta soffritta, un tocco di pomodoro e vi sfumò il vino, sale e pepe; l’odore riempì la cucina e il cortile. Don Saru, pronto: “Ammuccamu, cosi boni!”, e lei: “A favorire!” E l’altro: “Vulissi tastari, sì!” E venne e presa una forchettata se la cacciò in bocca: “Nela, fimmina di paraddisu si!”, Lei arrossì confusa e l’altro andò. Don Nicolino venne, sedette a tavola, ma davanti alla porta di modo che fosse visibile agli altri vicini. Lei sedette dalla parte opposta e la porta rimase aperta. Mangiarono tutto, poi li nichi cominciarono ad avere sonno e lei li mise a letto, poi si sedettero davanti alla porta come tutti gli altri. E lì al chiaro di luna parlarono del più e del meno anche cogli altri. Qualcuno si ritirò augurando la buona notte. Don Nicolino si ricordò delle parole di poco prima: “Nela, chi successi?” E lei: “Chi successi? Don Piddru Parrinu oggi avia certi ‘ntinzioni arriniscivi a evitallu pi picca, ma si continuamu accussi e l’alluntanu, mi manna a la casa e lu sirvizzu? Chi aiu a fari?, mormorò tra abbattuta e disperata. Chi fazzu? E iddru: “Si voi ci parlu. No, no, è megghiu di no. Staiu chiassà cu l’autri fimmini macari. Don Nicolino si alzò per andarsene: “Pensaci, Nela, ci voli picca pi fallu ragiunare”. “No, no lassamu iri!” “Comu voi tu”. Ah, senti ccà, aiu stu sciallettu; oggi mi lu dettiru a cangiu cu carni, tenilu, pi tia!” “Pi mia?, fece lei stupita, e lui pronto: “Nun n’aiu fimmini nta la mè casa, tenilu tu!. E glielo cacciò in mano. “Grazii!” fece lei.
La domenica successiva sul vestito nero per andare a messa lei mise lo scialletto. Occhi sospettosi, invidiosi lo notarono e qualcuna parlò: “Chi novità, cosi boni, Nela, chi fa ‘ngranasti?” “No, lu pigghiavi ni don Saru”. Le altre torno torno dissero: “Nun sarà chi lu pigghià qualchi autru? Ma cu pò essiri?” Qualcun’altra: “Ma cu pò essiri? Pi mia è don Niculinu.” Lei si fece di fiamma e scappò via.
La cosa camminò da una all’altra, e il clamore aumentò. La sera i due ritrovandosi ne parlarono perché Nela non riusciva a guardarlo negli occhi, lui aveva già sentito qualche commento alle sue spalle,e questo lo indispose. A lei disse: “Mi dispiace di averti messa in questa situazione, in mezzo a ‘sti malilingue. Nun lu meriti!”. E lei: “Ci vulia sulu chistu, Don Parrinu mi amminazza, dici chi mi licinzia, chi fazzu, chi fazzu?”, fece torcendo la vestina. Erano davanti alla porta di casa, anche se parlavano di cose delicate, ma in casa non era proponibile. Meglio che tutti li vedessero, se no chissà che cosa avrebbero pensato. Don Nicolino alla cosa ci aveva già pensato spesso,quindi ad un tratto come dicendo una cosa qualsiasi, un pò scherzando, ma molto sul serio disse: “Senti, si tu dici, iè sugnu prontu a maritariti, cussì tutti sti sparlisi si tapperannu la vucca. Chi dici? Va beni?” E iddra stordita, scombussolata dalla proposta: “E comu facemu?” “Comu facemu?”, fici Nicolino, “si fa lu matrimoniu”. E lei: “Don Niculinu, haiu ‘na casata di figghi, lu sapi !” “E allura, rispunni iddru: “Mi li carricu iè, e lu bonarma di ‘Nzulu cuntentu sarrà. Chi dici? Lu facemu?” “Don Niculinu, ci pinsassi, durmissici supra, la notti porta cunsigghiu. Poi videmu”. Si salutarono: “Santa notti. E pensaci!” “Si, si”.
Così passò per Nela una brutta nottata, pensò e ripensò, a lei chi la poteva cercare, con tutti quei figli! Don Nicolino li accoglieva sempre con affetto,e i nichi e pure Neli con lui bene ci stavano. Poi lei era senza un vero travagghiu, senza proprietà tranne ‘na casa che cadeva a pezzi!E don Nicolino, bonu cristianu, certo, ma c’era di camparci insieme, no il saluto, no l’ invito a tavola, il dare da un lato e dall’altro, c’era pure di dormici dentro un letto. Ma si disse pure, riflettendoci, che non le dispiaceva proprio, poi come cristiano poteva pure andare, senza contare che si sarebbe levato a don Parrinu di ‘ncoddru: “Chi fazzu?”
La mattina al travagghio la vecchia Mena la interrogò con lo sguardo, aveva sempre per lei premure ed affettuosità, quindi Nela le aprì il cuore: “Chi aspetti? Sordi, casa, travagghiu sicuru, ma prima di tuttu beddru cristianu, mai ‘na chiacchiera ‘ncapu d’iddru. Chi aspetti?”
E lei scesa la sera, aspettò che arrivasse, che s’avvicinasse: “Allura, Nela?” “Si ci pensa ancora, pi mia bonu puru è!” Allura è sì!”, fece lui con un gran sorriso. “Dumani parlamuni cu patri Petru pi dicidiri li cosi di fari. ‘Ntantu lu dicemu a tutti accussì na pocu si queterannu la testa e ora bona notti.”
I pochi giorni di sagnaliamento passarono senza quasi vederli tanto il da fare. La vecchia Mena, venne ad abitare lì con lei per il decoro e le apparenze, anche per aiutarla a sistemare la casa. Per prima cosa i mobili della casa di Nicolino che furono spolverati, trascurati erano, ma di buon legno assicurò il Matarazzo che di mobili se ne intendeva, una lucidata e furono a posto. Vi sistemarono in una stanza le cose dei nichi e nell’altra letto grande e le colonnette, armuar, comò con le poche cose sue e di Nicolino. Anche la casa era già stata lustrata fino ad essere splendente, la riempirono di fiori e il ventisette a sera andarono dal Sindaco e poi da patre Petru alla chiesa con il seguito degli invitati e dei curiosi. Dissero di sì davanti a Diu con la benedizione di Patri Petru e gli scherzi inevitabili del dopo: “Aguri e figghi mascoli! E Nicolino pronto: “L’haiu già. Chisti!”,fece spingendo in avanti i figli di Nela, “chisti sunnu li mei!”
Tornati a casa, trovarono la tavola consata piena di vari tipi di pasta e carni in abbondanza: che si doveva dire? Un matrimonio scarso per un macellaio, Nicolino ne aveva portata in abbondanza e le vicine e amiche di Nela la prepararono e pure dolci di vario tipo e vino, in ultimo ciciri cotti e favi caliati. Lei finito il cenone e salutati tutti, colla vecchia Mena andò alla casa coi nichi che cadevano dal sonno, e sistematili ritornò da Nicolino. Si tolse il vestito buono, non bianco, perchè maritata già era stata, ma un bluette moderato di crepe che richiamava il colore dei suoi occhi, che Nicolino le fece fare dalla migliore sarta del paese, che lavorava solo per i benestanti .
Nela sentiva una punta d’inquietudine, e per darsi contegno cominciò a rassettare. Nicolino le venne alle spalle e la fermò: “Dumani Nela, dumani, ora a dormiri, sarrai puru tu stanca!” così dicendo la spinse verso la stanza approntata dalle donne, lei disse: “Vaiu a cangirimi!” “Sì”, fece lui” pure iè. Quando tornò, Nicolino la raggiunse e tenendola per le braccia, a testa bassa per guardarla negli occhi le disse: “Di mia nun aviri mai paura”, sentendola trimari, “Ti vorrò sempri beni, ora veni ccà, sedi vicinu a mia nta stu lettu”, le diede un bacio dolce e sereno su una guancia. “Veni ccà” e se la tirò addosso e poi scherzosamente la fece rotolare sul letto. E lei:” No, no, li coperti!”. “Tranquilla, fece lui e con un colpo le fece volare ai piedi del letto. Lei si alzò e disse:”Li sistemu, peccato si rovinanu” Lui la lasciò fare per poi riprenderle la mano, appena finito, per riportarsela vicino. Continuò a baciarla piano piano come si fa coi nichi, per non impaurirla, poiché capì quanto lo fosse già. Lei, dal canto suo, dopo tanti anni di vedovanza e dormire sola senza un uomo, era come se avesse ritrovato la fanciullezza e era troppo timida per far qualcosa di sua iniziativa. Così lui l’abbracciò tenendola vicino: “Facemu chiddru chi voi tu, nun aviri paura, tu sì la me prima mugghieri, a tia sula aiu e vogghiu!” Lei trovò il coraggio di guardarlo, si rese conto che con questo tipo d’uomo poteva vivere una vita e serenamente. Si lasciò sfuggire un sospirone. Lui sorrise: “Va beni accussi?” Si abbracciarono, lui spense il lume sulla colonnetta e la notte si chiuse su di loro.
Tanina Lipari
© Riproduzione riservata



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