Martina Melgazzi: “Raccontare l’Italia ottocentesca mi ha permesso di parlare, in filigrana, di ruoli sociali che resistono ancora oggi”

 


Con Cuorespina, Martina Melgazzi firma un romanzo ambientato nel cuore dell’Ottocento, in cui la tragedia familiare della giovane contessina Fiore diventa la miccia per un viaggio emotivo complesso, ironico e profondamente umano. Attraverso la sua voce – lucida, spietata e irresistibilmente moderna – l’autrice costruisce una storia che parla di potere, educazione, libertà e compromessi. Abbiamo rivolto all’autrice alcune domande per entrare nelle ossa di questo romanzo affilato.

Fiore è un personaggio fuori dal comune per la sua epoca: quanto è stato difficile costruire una protagonista così consapevole e allo stesso tempo intrappolata nel contesto sociale del tempo?

Costruire Fiore è stato difficile e naturale allo stesso tempo. Difficile, perché dovevo mantenere credibile una ragazza dell’Ottocento che vive dentro un sistema sociale rigido, pieno di aspettative, regole non dette e confini molto netti. Naturale, perché Fiore nasce proprio da quella frizione: è una giovane donna che vede il mondo con più lucidità di quanta il suo contesto le concederebbe, e questa incongruenza la rende viva. Io non volevo una ribelle anacronistica, né un’eroina moderna infilata nell’Ottocento “per simpatia”. Volevo una ragazza intelligente, osservatrice, dotata di una sincerità quasi brutale, che però rimane figlia del suo tempo, educata a compiacere, a trattenersi, a obbedire.
La sua consapevolezza non la libera: la logora. Le dà gli strumenti per capire quello che le accade, ma non quelli per sfuggirgli. E questo, a mio avviso, è il cuore del personaggio. Fiore vede tutto: le ipocrisie, il ruolo che dovrebbe recitare, i compromessi che la sua famiglia si aspetta da lei. E proprio per questo sta male. La difficoltà, per me, è stata equilibrare questi due poli: darle una voce nitida, ironica, tagliente, senza toglierle la complessità di una ragazza che non ha ancora il potere di decidere davvero della propria vita.

Il tema della famiglia attraversa il romanzo come una ferita aperta: cosa volevi esplorare attraverso la distruzione della casa dei Cuorespina?

La distruzione della casa dei Cuorespina è il punto da cui tutto si incrina, ma per me non è mai stata solo un evento narrativo. Volevo raccontare cosa succede quando le fondamenta di una famiglia, quelle che dovrebbero proteggerci, formarci, darci un senso del mondo, si rivelano fragili, corrotte, o semplicemente incapaci di sostenere il peso di chi siamo davvero. La casa dei Cuorespina è un luogo di prestigio, ordine e apparenza, ma al suo interno ospita silenzi, omissioni, rancori radicati. Quando crolla, crolla soprattutto l’illusione. Attraverso quella distruzione volevo esplorare il momento in cui il mito della famiglia si spezza e rimane la realtà nuda: una coppia di persone legate dal sangue, ma non necessariamente dall’amore o dal rispetto. Fiore assiste al collasso di tutto ciò che le era stato insegnato a venerare, e quel trauma la costringe a guardare la sua vita senza i filtri dell’educazione e del ruolo sociale.

La figura della madre, Margherita, domina il libro con una presenza tanto magnetica quanto inquietante. Qual è stato il punto di partenza per creare un personaggio così ambiguo?

Margherita è nata da una domanda molto semplice: che cosa succede quando una donna, cresciuta dentro regole ferree, impara a usarle come arma invece che come gabbia? Da lì è partito tutto. Non volevo una madre “cattiva”, né una figura monolitica; volevo una donna che fosse il prodotto del suo tempo, delle sue ferite, delle sue ambizioni soffocate. Una persona che ha interiorizzato così profondamente il sistema da diventare, a sua volta, parte del sistema stesso. Il punto di partenza è stato immaginarla da giovane, prima ancora che diventasse madre: una ragazza intelligente, consapevole della propria posizione ma anche dei limiti che il suo mondo le imponeva. Margherita non è nata calcolatrice; lo è diventata per necessità, per sopravvivenza, per un senso distorto ma potentissimo del dovere.


Nel romanzo emergono spesso contrasti di classe molto netti, tra nobiltà decaduta e borghesia arricchita. Quanto ti interessava esplorare gli attriti sociali dell’Italia ottocentesca e quanto parlano al presente?

Mi interessava moltissimo, sia come elemento narrativo sia come modo per parlare del nostro presente. L’Ottocento è un periodo perfetto per osservare le crepe di un sistema sociale che si illudeva immobile: la nobiltà che perde potere ma finge di non vederlo, la borghesia che sale con una fame nuova, il popolo che resta ai margini anche quando tutto sembra cambiare. Sono tensioni che non hanno mai davvero smesso di esistere. Mentre scrivevo, mi rendevo conto che quei contrasti non sono soltanto un “colore d’epoca”. Sono dinamiche che riconosciamo benissimo: chi ha paura di perdere il proprio status, chi si reinventa a ogni costo, chi osserva tutto da sotto e capisce prima degli altri verso dove tira il vento. Raccontare l’Italia ottocentesca mi ha permesso di parlare, in filigrana, di ruoli sociali che resistono ancora oggi, di gerarchie che cambiano forma ma raramente sostanza, di un potere che continua a funzionare per esclusione e convenienza.

Un’ultima curiosità: il romanzo alterna momenti di puro realismo ad atmosfere quasi gotiche: come hai trovato il tono giusto per mantenere questo equilibrio?

Per me il punto non era costruire un gotico “puro”, ma lasciare che l’atmosfera emergesse da ciò che vive Fiore. Il realismo è la sua realtà quotidiana: la polvere, le chiacchiere di paese, il peso dei doveri sociali. Il gotico, invece, arriva quando quella realtà si deforma, quando qualcosa si incrina dentro di lei. È un tono che nasce dal suo sguardo, non da un artificio di stile.
Ho cercato un equilibrio che fosse emotivo prima che estetico: volevo che il lettore sentisse la concretezza dei luoghi, ma anche quell’inquietudine sottile che accompagna Fiore ogni volta che si accorge che il mondo intorno a lei non è così solido come vorrebbe. Le scene più cupe o più sospese non sono “inserite” per creare atmosfera: sono la conseguenza naturale delle pressioni che la protagonista subisce, dei segreti che si muovono sotto la superficie e della fitta rete di potere che tiene insieme il paese.
In pratica, il tono è nato unendo due livelli: il quotidiano, con la sua durezza e le sue regole, e la percezione interiore di Fiore, che spesso trasforma ciò che vede in qualcosa di più tagliente, più oscuro, più inquieto.


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