Simone Agrò a Fattitaliani: la danza ci mette a nudo e tira fuori la verità che abbiamo dentro. L'intervista al Primo Ballerino del Teatro dell’Opera di Roma

 


di Giovanni ZambitoNato ad Agrigento nel 1998, Simone Agrò  (ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma) è stato nominato Primo Ballerino del Teatro dell’Opera di Roma, al termine della “prima” di Marco Spada, in una serata carica di emozione. Dalla sala di danza di un paesino siciliano al grande palcoscenico capitolino, Agrò ha costruito con costanza, talento e dedizione un percorso esemplare, diventando uno dei volti più rappresentativi della nuova generazione di danzatori italiani. Nell’intervista rilasciata a Fattitaliani, racconta con sincerità il suo cammino, le sfide affrontate, i maestri che lo hanno accompagnato e la profonda gratitudine verso la sua famiglia e il Teatro che oggi considera “casa”.

Simone, cosa ha provato nel momento in cui, al termine della “prima” di Marco Spada, ha saputo della sua nomina a Primo Ballerino del Teatro dell’Opera di Roma?
Nel momento in cui ho sentito pronunciare le parole del Sovrintendente, ho rivisto tutto il mio percorso: dai primi passi nella sala di danza del mio paesino in Sicilia a tutti i ruoli che ho interpretato sul palcoscenico del Teatro dell’Opera. Ma la cosa che mi ha emozionato più di tutte è stata sapere che la mia famiglia era seduta tra il pubblico e stava vivendo con me quel momento.

La serata è stata una vera festa, con coriandoli, applausi e grande commozione. C’è un’immagine o un momento preciso che porterà sempre con sé?
Sono rimasto colpito dalla commozione e dalla felicità che vedevo negli occhi di tutti coloro che erano lì con me in quel momento.

Questa nomina arriva dopo anni di impegno e crescita all’interno della compagnia. Se potesse riassumere il suo percorso in una parola, quale sceglierebbe?
Più che una parola, mi viene in mente un’immagine per descrivere il mio percorso: salita. Se ripenso al mio primo giorno in compagnia, a tutti i ruoli che ho affrontato, alle sfide vinte e perse, credo proprio che salita sia il termine giusto.

È nato ad Agrigento e ha iniziato a ballare a soli quattro anni. Come è nato questo amore per la danza?
I miei genitori facevano danze caraibiche e io andavo sempre con loro, finché un giorno — non ricordo il perché — chiesi a mia mamma di iscrivermi a danza classica. Le dissero che ero troppo piccolo. E come dargli torto? Avevo solo quattro anni.
Io piansi tutti i giorni finché mia mamma, esausta, mi riportò nella stessa scuola di danza spiegando la mia determinazione. Loro le dissero di lasciarmi provare e da quel giorno non ho più smesso. Ricordo che era proprio una necessità.

A dodici anni ha lasciato la Sicilia per studiare a Roma, alla Scuola di Danza del Teatro dell’Opera. Quanto è stato difficile quel passaggio per un ragazzo così giovane?
In realtà, appena arrivato a Roma, era così tanta la voglia di farcela che cercavo sempre di non pensare alle difficoltà.
Ma la difficoltà più grande è stata stare lontano dalla mia bellissima famiglia. Siamo quattro fratelli maschi, e ritrovarmi da solo in un’altra città non è stato semplice. Tuttavia, la loro fiducia nei miei confronti mi ha sempre spronato a fare di più.

C’è un insegnante o un momento formativo che considera decisivo per la sua crescita artistica?
Considero ogni incontro del mio percorso artistico decisivo.
A partire dalle mie insegnanti di danza di Realmonte, che mi hanno fin da subito indirizzato verso la strada giusta, all’étoile Alessandro Molin, che mi ha dato la borsa di studio per la Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma e mi ha permesso di studiare e formarmi con insegnanti eccezionali, fino ad arrivare a Eleonora Abbagnato, che da quando ho messo piede in compagnia ha sempre creduto in me e mi ha dato l’opportunità di mettermi in gioco.

Ha interpretato ruoli molto diversi, dal classico Don Chisciotte a Pink Floyd Ballet. C’è un ruolo che sente più “suo”?
Amo interpretare ogni ruolo perché mi piace immergermi nelle storie dei personaggi.
Ma i ruoli che sento più miei sono Basilio di Don Chisciotte e Lenskij di Onegin.


Come riesce a passare con naturalezza da un linguaggio classico a uno contemporaneo?
La danza ha molte forme. La danza classica sicuramente è la base di tutto e rappresenta una sfida giorno dopo giorno, ma la bellezza del mio mestiere credo stia anche nella possibilità di cimentarsi in altri stili, scoprendo quanto il proprio corpo riesca ad assumere sempre forme nuove.

Eleonora Abbagnato ha parlato di lei come di un danzatore “versatile, elegante e appassionato”. Come vive questo riconoscimento da parte della sua direttrice?
L’appoggio della direzione è fondamentale nel mio mestiere. La fiducia che mi è stata data da Eleonora è preziosa: senza le opportunità che ho ricevuto, non avrei potuto superare i miei limiti.

Quanto conta per lei l’interpretazione, oltre alla tecnica, in un ruolo di danza?
Personalmente credo che l’interpretazione sia la parte più bella del mio mestiere. È fondamentale catturare l’attenzione del pubblico e smuoverne la sensibilità: la tecnica da sola non basta per arrivare a questo scopo.

Ha ricevuto numerosi premi, tra cui Europa in Danza e Danza&Danza 2023. Che valore hanno per lei questi riconoscimenti?
Ricordo ancora l’emozione della prima volta in cui mi hanno contattato per ricevere un premio. È sempre bello sapere che c’è qualcuno che apprezza e riconosce il lavoro che viene fatto.

Oggi è un punto di riferimento per molti giovani ballerini. Che consiglio darebbe a chi sogna di intraprendere la stessa carriera?
Fare della propria passione un lavoro è un privilegio che pochi possono avere nella vita. Il consiglio che mi sento di dare è di seguire i propri sogni: saranno realizzabili solo con il duro lavoro e la costanza, giorno dopo giorno. Non esistono scorciatoie.

Se dovesse descrivere con tre aggettivi la sua visione della danza, quali sceglierebbe?
Autentica, poetica, rigorosa.
Questi sono i tre aggettivi che userei per descrivere la danza secondo me. È un’arte che ci mette a nudo e tira fuori la verità che abbiamo dentro, in modo poetico e sensibile. Ma oltre questo lato, c’è anche una costante relazione con sé stessi, il proprio corpo e il lavoro quotidiano.

C’è un rituale o un gesto che compie sempre prima di salire sul palco?
Prima di salire sul palco porto con me la foto del mio cane, che è venuto a mancare non da molto, perché sapere di averla vicino in quei momenti mi tranquillizza. Ho anche una catenina dal valore simbolico che tengo sempre con me.

Come riesce a mantenere l’equilibrio tra disciplina, emozione e vita personale?
Cerco sempre di tenere a fuoco l’obiettivo. Ovviamente ogni tanto si barcolla, ma in quei momenti c’è accanto a me la mia compagna, che mi sprona a fare di più.

Dopo questa nomina, cosa rappresenta per lei il Teatro dell’Opera di Roma, dove è cresciuto artisticamente?
Sono entrato a dodici anni nella Scuola del Teatro, poi, subito dopo il diploma, sono passato in compagnia. Ho ricevuto diverse possibilità di mettermi in gioco e crescere artisticamente. Qui ho incontrato persone che oggi sono diventate parte fondamentale della mia vita. Per me il Teatro dell’Opera è casa.


Se potesse rivolgersi al Simone bambino, quello che iniziava a ballare a Realmonte, cosa gli direbbe oggi?
Ho ricordi bellissimi della maggior parte del percorso che mi ha portato fin qui, quindi non sento la necessità di dire qualcosa in particolare al me bambino. Sicuramente, per i momenti più difficili, gli direi di non dubitare mai di sé stesso, delle proprie capacità e delle scelte fatte.

Fattitaliani

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