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Foto da Facebook |
Vive con la scrittura tra le mani, partorendo storie e maneggiandole con maestria. Lei è Aurora Piaggesi, storyteller e regista, da pochissimo anche autrice. Il suo romanzo d’esordio, Nel corpo di me, esce il 17 ottobre con Ignazio Pappalardo Editore e porta con sé un’idea narrativa tanto originale quanto dirompente: rovesciare il tema sacro della natività cristiana e inserirlo in un contesto queer.
La protagonista, Silvia, è una donna lesbica che resta miracolosamente incinta. Mentre fa i conti con l’avvenimento misterioso, tutti attorno a lei sembrano voler dire la propria su questa gravidanza “fuori dagli schemi”. È una storia che parla di maternità, di ricerca di sé, di sacralità e, in fondo, d’amore. L'intervista.
Nel 2016, nel pieno del furore dei dibattiti sulle unioni civili, uno degli argomenti che i contrari a questa legge usavano per portare acqua al mulino della loro causa era la questione della genitorialità; come se legalizzare l’esistenza della coppia omosessuale immediatamente avrebbe aperto le porte di chissà quale orrore familiare, permettendo a tali coppie di adottare dei bambini. (Purtroppo, questa convinzione radicata in tutta una fascia di popolazione che due persone dello stesso genere non siano dei buoni genitori esiste ancora, nonostante le migliaia di casi che dimostrano il contrario e ad oggi questo diritto è ancora precluso).
Io nel 2016 stavo frequentando da poco quella che anni dopo sarebbe diventata mia moglie e, non so perché, un giorno le dissi: “Sono talmente ingenua che se tu mi dicessi che sei rimasta incinta per miracolo, ci crederei”. Ci tengo a far sapere qui che non sono cristiana; quindi, immagina quanto suoni cretina questa dichiarazione.
Ma, in qualche modo, questi due temi mi sono rimasti in testa. Come reagirebbe il mondo, questo mondo così intollerante, a una lesbica che rimane incinta “per magia”? Da questa domanda ho scritto un soggetto per una sceneggiatura, che nel 2017 vinse il Premio Borsa di Formazione Mattador, ma la cui sceneggiatura non divenne mai un film. E nel 2019, rispondendo a un bisogno condiviso di “scavare più a fondo” in questa vicenda, scrissi la prima bozza di questo romanzo, dal titolo In Umana Concezione.
Di conseguenza, non mi descriverei mai come una persona né come un’autrice il cui obiettivo è il “dissacrante”, perché penso che mi manterrebbe su un piano di cinismo che non fa bene a nessuno, non in una società già abbrutita come la nostra.
Secondo me le storie, anche quando contengono delle critiche o descrivono situazioni dolorose, hanno il potere di – oltre l’intrattenimento – ispirare delle reazioni in chi le fruisce. Noi narratori non possiamo sapere al 100% come reagirà ognuno dei nostri lettori, ma certamente possiamo concepire le storie per favorire delle reazioni piuttosto che altre. Per quanta rabbia e dolore possa provocare un mio scritto, la mia speranza è di stimolare una riflessione propositiva in chi mi legge e, magari, anche delle azioni positive, di prendere consapevolezza di ciò che vogliamo migliorare in noi e fuori di noi.
Silvia è una donna che si scopre incinta senza essere mai stata con un uomo. Da qui, dai vita a una serie di eventi che accadono nella vita di questa protagonista e che la mettono di fronte a una nuova ricerca di sé. Come descriveresti il viaggio che compie Silvia?
Stiamo parlando di una donna che, non solo non ha cercato questa maternità, ma che ha delle profonde ferite interiori, che la portano a scacciare chiunque le si avvicini troppo emotivamente. Questa nuova relazione con la vita che le cresce dentro la porterà progressivamente anche a relazionarsi diversamente con chi le sta a fianco e le vuole bene davvero.
Nei primi capitoli i personaggi si chiedono se quello che si trova dentro Silvia sia un tumore o qualcosa di pericoloso per lei. Penso che ogni persona, nel momento in cui diventa genitore, ad un certo punto attui un’inevitabile trasformazione in sé (se ciò non avviene, povera la loro prole!): mettere al mondo e crescere dei figli richiede inevitabilmente una qualche forma di sacrificio e non sto parlando solo di tempo o denaro, ma del fatto che nel diventare genitori – madri soprattutto – a un tratto non siamo più la persona più importante per noi stessi. La nostra prole, lo diventa.
E quindi, inevitabilmente, una parte di noi, piccola o grande a seconda del caso, viene sacrificata. Da donna childfree, quindi senza figli per scelta, provo grande ammirazione per le madri, proprio per questo sacrificio che accettano in nome dell’amore. E, proprio per questo, penso che sia fondamentale e necessario che l’esperienza della genitorialità possa essere sempre una scelta, mai un obbligo.
In questa storia abbiamo una vox populi che abita un mondo in crisi, sia per la crisi climatica che per le tensioni politiche, che si trova di fronte a un evento incomprensibile, sia a livello di logica che a livello di dogmi, e che a tale evento non sa reagire. Spesso la strafottenza, la spacconaggine e la ricerca di menzogne e intrighi ci danno l’illusione di poter esercitare un controllo che, alla fine, non abbiamo mai.
Io ero interessata ad esplorare cosa può accadere dentro e fuori di noi quando ci apriamo all’imprevedibile, a ciò che non capiamo e, soprattutto, all’altro, tutte cose che una maniaca del controllo come me ha problemi a fare.
C’è anche un senso più profondo, legato anche alle implicazioni umane ed emotive che quest’accettazione può comportare, ed è in questo aspetto, forse, che chi lo cerca troverà il sacro. Ma alla fine, come in ogni opera testuale, il senso di questo romanzo sarà differente a seconda di chi lo leggerà, ed è una cosa che mi piace immaginare.
Intervista a cura di Asia Pichierri