Mahler n. 9 alla Philharmonie Luxembourg: un respiro orchestrale che spazia dal magma al silenzio

GA_c_Lena Laine_Berliner Philharmoniker

La Nona di Mahler, nelle mani di Kirill Petrenko e dei Berliner Philharmoniker, non è apparsa come un monumento da contemplare, ma come una materia viva che mutava sotto gli occhi (e le orecchie) del pubblico.

Ogni sezione dell’orchestra respirava come un corpo autonomo e al tempo stesso legato a un respiro comune: archi che si dilatavano in un’unica onda, ottoni incisi ma mai invadenti, legni sottili come vene che portavano ossigeno al tessuto complessivo.

L’elemento più sorprendente è stata la gestione della dinamica. Non un semplice gioco di contrasti, ma una progressione naturale che trasformava un suono possente, quasi tellurico, in un filo sonoro ridotto all’essenziale, senza fratture. Il pianissimo finale dell’Adagio non era un abbassamento di volume: era una rarefazione progressiva, come se la materia orchestrale si facesse trasparente fino a dissolversi nello spazio della sala.

Petrenko non ha imposto un’interpretazione, ma ha costruito un arco narrativo continuo: il sarcasmo danzante dei Ländler, la ferocia incalzante del Rondo-Burleske, la gravità pacificata dell’ultimo movimento. Ogni passaggio aveva un colore preciso, ogni gesto nasceva dalla necessità interna della partitura.

Il risultato non è stato solo un’esecuzione impeccabile sul piano tecnico, ma un’esperienza di percezione: un invito a vivere la sinfonia non come un’opera da ammirare a distanza, bensì come una vicenda sonora in cui lo spettatore viene trascinato, fino al silenzio conclusivo che ha lasciato la sala sospesa, quasi trattenendo il respiro.

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En Français

La Neuvième de Mahler, sous la direction de Kirill Petrenko à la tête des Berliner Philharmoniker, n’est pas apparue comme un monument figé à contempler, mais comme une matière vivante en perpétuelle métamorphose sous les yeux (et les oreilles) du public. Chaque section de l’orchestre respirait comme un organisme autonome, tout en restant liée à un souffle commun : les cordes se déployaient en une seule vague, les cuivres incisifs ne devenaient jamais envahissants, les bois circulaient comme des veines qui apportaient de l’oxygène au tissu orchestral.

L’élément le plus marquant a été la gestion des dynamiques. Non pas un simple jeu de contrastes, mais une progression naturelle qui faisait passer une sonorité puissante, presque tellurique, à un fil sonore réduit à l’essentiel, sans aucune rupture. Le pianissimo final de l’Adagio n’était pas une simple diminution de volume : c’était une raréfaction progressive, comme si la matière orchestrale devenait transparente jusqu’à se dissoudre dans l’espace de la salle.

Petrenko n’a pas imposé une interprétation, il a construit un arc narratif continu : l’ironie dansante des Ländler, la vigueur implacable du Rondo-Burleske, la gravité apaisée du dernier mouvement. Chaque passage possédait une couleur précise, chaque geste naissait d’une nécessité interne de la partition.

Le résultat n’a pas seulement été une exécution techniquement irréprochable, mais une véritable expérience perceptive : une invitation à vivre la symphonie non pas comme une œuvre à admirer de loin, mais comme une aventure sonore qui emporte l’auditeur, jusqu’au silence final qui a suspendu la salle, comme si chacun retenait son souffle.

Fattitaliani

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