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aprile 1862, Persia, Marcello Cerruti, Ministro Plenipotenziario (terzo da destra, seduto), guida la Missione italiana in Persia |
Come deve l’Occidente rapportarsi con Stati che non appartengono al modello liberaldemocratico?
È una domanda che oggi risuona con particolare forza in un mondo attraversato da conflitti, alleanze fluide e nuove rivalità economiche e tecnologiche. Una risposta univoca non esiste, ma spunti preziosi arrivano da un libro appena pubblicato che affronta la questione con lo sguardo lungo della storia.Si tratta del volume Italia e Iran 1857-2015. Diplomazia, Politica ed Economia, uscito per Editoriale Scientifica nella collana Memorie e Studi diplomatici diretta dall’ambasciatore Stefano Baldi. Curata dagli storici dell’Università di Bari Rosario Milano, Federico Imperato, Luciano Monzali e Giuseppe Spagnulo, l’opera raccoglie i contributi di alcuni tra i maggiori esperti italiani di Medio Oriente, fra cui Riccardo Redaelli, Siavush Randjbar-Daemi, Stefano Beltrame, Roberta La Fortezza e Michele Brunelli.
Il messaggio
che emerge dalle ricerche contenute nel volume è netto: non si può pensare a un
ordine internazionale stabile senza riconoscere le diversità politiche e
culturali. Non significa arrendersi all’idea di conflitti inevitabili, ma
comprendere che la convivenza pacifica passa dalla capacità di accettare e
gestire le differenze. In questa prospettiva, il libro invita a guardare al
“modello italiano” di interazione con l’Iran. Una tradizione diplomatica che,
lungo oltre 150 anni, ha scelto il dialogo e il realismo come strumenti
privilegiati, mantenendo aperti i canali anche nei momenti più difficili.
Dalle origini all’era fascista
La ricostruzione parte, nel saggio di Luciano Monzali, dagli anni immediatamente precedenti l’Unità d’Italia. Nei primi decenni, i rapporti furono segnati dalla ricerca di legittimazione internazionale da parte del nuovo Stato italiano e dal bisogno persiano di bilanciare l’ingerenza di Russia e Gran Bretagna. L’Italia guardava con favore a un Iran indipendente, mentre Teheran trovava in Roma un interlocutore meno ingombrante delle grandi potenze.
Con l’avvento del fascismo e della dinastia Pahlavi, gli anni Venti e Trenta mostrarono andamenti altalenanti, ma anche sorprendenti analogie. Nel suo primo saggio, Giuseppe Spagnulo mette in evidenza i tratti comuni tra Mussolini e Reza Shah: il mito dell’uomo forte, i progetti di modernizzazione e la difficoltà di rapportarsi con un quadro internazionale dominato da potenze più grandi.
Il petrolio e la Repubblica
Dal secondo dopoguerra la relazione si riaccese, come ricorda ancora Spagnulo, in particolare con l’accordo petrolifero ENI-NIOC del 1957. Roma e Teheran costruirono un legame di mutuo sostegno: l’Italia guadagnava un ruolo nel settore energetico, l’Iran un contrappeso all’ingerenza esterna. Fu una stagione di cooperazione che si protrasse fino al regno di Muhammad Reza Pahlavi, con l’Italia spesso pronta a sfruttare spazi lasciati liberi da altri partner occidentali.
Gli anni di Muhammad Mossadeq, leader della nazionalizzazione petrolifera, sono raccontati da più prospettive: quella diplomatica, con l’ambasciatore italiano Enrico Cerulli, analizzata da Stefano Beltrame, e quella giornalistica, con il resoconto del viaggio del 1951 di Maria Antonietta Macciocchi, rievocato da Siavush Randjbar-Daemi.
La rivoluzione e oltre
Il 1979 segnò un punto di svolta: la caduta dello Scià e la nascita della Repubblica islamica. Rosario Milano analizza la reazione italiana, che fu duplice: da un lato la volontà di mantenere legami economici e politici, dall’altro il tentativo di capire le radici profonde di un mutamento così radicale. Non mancò, come sottolinea Luca Riccardi, persino una certa fascinazione da parte del Partito Comunista italiano verso l’ideologia khomeinista, presto trasformata in delusione.
Nei decenni successivi, Roma tentò di favorire un reinserimento di Teheran nella comunità internazionale, puntando sulle correnti più moderate del regime. Diplomazie pazienti e discrete, come quella ricordata dall’ambasciatore Ludovico Ortona negli anni Novanta, mostrarono la volontà italiana di restare un interlocutore privilegiato, anche quando altri Paesi europei chiudevano le porte.
L’era di Khatami, con i suoi tentativi di riforma, trovò nell’Italia un osservatore attento. Ma il sogno riformista, come spiega Roberta La Fortezza, si spense con l’avvento di Ahmadinejad, isolato dalla comunità internazionale e al centro di crescenti tensioni sul nucleare.
Il nucleare
e la nuova crisi
Un nuovo
spiraglio parve aprirsi con Hassan
Rohuani, presidente dal 2013, che avviò le trattative sul programma
nucleare. L’accordo del 2015, noto come JCPOA, restituì speranza di un
reinserimento dell’Iran sulla scena
globale e offrì all’Italia
l’occasione di rilanciare i rapporti. Tuttavia, il successivo ritiro degli
Stati Uniti sotto l’amministrazione
Trump ne vanificò gli effetti, riportando il dialogo su un terreno fragile
e incerto.
Una relazione che resiste
Il volume non trascura altri aspetti delle relazioni italo-iraniane: Federica Onelli ricostruisce l’evoluzione della rappresentanza diplomatica italiana a Teheran, mentre Michele Brunelli si concentra sui rapporti tra la Santa Sede e l’Iran e Luca Lecis sul ruolo delle missioni cattoliche.
Ma ciò che emerge con forza è l’idea di una “relazione speciale”, come la definisce Riccardo Redaelli: un legame fatto di attrazione reciproca, di culture millenarie che si riconoscono e si rispettano, anche nelle differenze più profonde. Italia e Iran non sono mai stati partner facili, ma la loro lunga storia comune dimostra che il dialogo è possibile. E se oggi le vicende internazionali sembrano aver offuscato quel legame, il patrimonio accumulato nel tempo lascia intravedere la possibilità che Roma torni a svolgere un ruolo di ponte tra Teheran e l’Occidente
La versione digitale del libro può essere liberamente scaricata dal sito della collana “Memorie e studi diplomatici” di Stefano Baldi: https://diplosor.wordpress.com/collana-di-libri/
Antonella Fiorio