Il tè nel deserto: il volto oscuro dell’Occidente e il nostro tempo

 


"Il viaggio non è mai un ritorno: esso consuma chi vi partecipa, lasciando dietro di sé solo le ombre di ciò che eravamo."  Paul Bowles

Il deserto è una parola antica, ma oggi suona come mai attuale. È il luogo della solitudine, della perdita, della prova. Ma è anche il teatro della rivelazione, lo spazio in cui le illusioni cadono e l’essere umano si misura con se stesso. Se ne parla oggi non solo per una rinnovata attenzione a Bertolucci e al romanzo di Bowles, ma anche perché la nostra epoca sembra vivere un deserto culturale e politico.

La morte violenta del fondatore di Turning Point, la dissoluzione delle ideologie, il fallimento della sinistra storica incapace di parlare alle nuove generazioni, la cultura woke che da sensibilità si è fatta dogma: tutto questo ci consegna un Occidente smarrito, fragile, quasi pronto a perdersi tra le proprie sabbie.

Forse perché mi è capitato di visitare Casarola, la casa avita dei Bertolucci, ho rivisto Il tè nel deserto. Non è un film perfetto, lo si è detto più volte: non possiede la forza scandalosa di Ultimo tango a Parigi, non scuote le coscienze come Novecento, eppure rimane una visione ipnotica. C’è in esso la stessa tensione che oggi ci attraversa: un viaggio in cui non si torna indietro, un viaggio che non riconsegna ciò che si era, ma mostra un Occidente fragile e febbricitante, perso nella propria vanità.

Jane Bowles: vita come letteratura

Jane Bowles è il volto segreto dell’Occidente: fragile, contraddittoria, ribelle, condannata a muoversi sempre ai margini. Nata a New York nel 1917, da famiglia ebraica abbiente, fu segnata da una caduta da bambina che la rese zoppicante per tutta la vita: un dettaglio fisico che diventò simbolo, come se il corpo fosse già testimonianza di una fragilità più profonda.

Le sue fobie erano leggendarie, il suo spirito libero e feroce. Incontrò Paul Bowles nel 1937: ne nacque un matrimonio impossibile, eppure complementare. Jane dichiarava apertamente la propria omosessualità, Paul la sua attrazione verso un mondo maschile esotico e distante. Si sposarono e restarono insieme tutta la vita, più come complici che come amanti, entrambi attratti dall’impossibilità dell’altro.

Il loro cerchio di amicizie comprendeva figure come Benjamin Britten, Peter Pears, Richard Wright, Carson McCullers. Era una comunità internazionale, cosmopolita, nomade, che cercava spazi di libertà creativa e affettiva, lontano dai dogmi delle rispettive patrie.

Jane pubblicò poco, ma lasciò un segno: Two Serious Ladies fu salutato da Truman CapoteTennessee Williams e John Ashbery come un testo capace di catturare la follia, la solitudine e la bellezza cruda della vita. Una scrittura leggera e dura al tempo stesso, esattamente come la sua vita: un grido contro ogni conformismo, un inno alla singolarità.

Il cinema di poesia di Bertolucci

Pier Paolo Pasolini distingueva il cinema in due grandi famiglie: il cinema di prosa – narrativo, logico, razionale, rappresentato da autori come Jean-Luc Godard e Marco Bellocchio – e il cinema di poesia, lirico, visionario, soggettivo, incarnato da François Truffaut e Bernardo Bertolucci.

Il tè nel deserto (nella foto) appartiene a quest’ultima dimensione: non racconta solo una vicenda, ma costruisce un tessuto visivo e sensoriale in cui le immagini si fanno parole poetiche. Il deserto non è sfondo, ma protagonista: la luce, i colori, le distese di sabbia diventano segni narrativi, metafore dell’anima e della storia.

Vittorio Storaro, direttore della fotografia, disse che Bertolucci si identificava in entrambi i protagonisti: in Port, il maschile fragile e razionale, e in Kit, il femminile ferito e resistente. L’uno e l’altra camminano insieme, ma senza mai incontrarsi davvero: esattamente come le ideologie del nostro tempo, che si sfiorano senza comprendersi, si oppongono senza un dialogo autentico.

La colonna sonora di Ryūichi Sakamoto fa il resto: non è semplice accompagnamento, ma respiro profondo del film. La sua musica trasforma la violenza in poesia, l’angoscia in ritmo, l’assenza in presenza. È ciò che la grande arte sa fare: rendere sensibile l’indicibile.

Il deserto: metafora e prova

Il deserto in Bowles e in Bertolucci è assenzaprova e metafora. Port e Kit non affrontano solo un viaggio geografico, ma una discesa nel cuore della propria fragilità. Port muore, vittima della sua incapacità di leggere il mondo. Kit sopravvive, ma a prezzo di una trasformazione radicale, quasi di una perdita di sé.

Qui si inserisce il parallelo con le tradizioni spirituali. Il deserto è da sempre il luogo delle prove decisive:

  • Gesù vi trascorse quaranta giorni, affrontando la tentazione e il vuoto come iniziazione alla sua missione.
  • Gli Esseni, comunità ebraica ascetica, cercavano nel deserto la purezza e la disciplina.
  • Sufi lo considerarono luogo di spoliazione e silenzio, dove l’anima si libera e incontra l’Assoluto.
  • Cenobiti cristiani, padri e madri del monachesimo, vi trovarono l’occasione di fondare comunità lontane dalla corruzione del mondo.

Il deserto è dunque limite e inizio: chi vi entra può perdersi, ma anche rinascere. È il luogo in cui l’Occidente di oggi si trova: ha perso i suoi riferimenti, vive la tentazione del vuoto, ma proprio in questo vuoto può ritrovare una nuova forma di identità.

Tangeri: la città frontiera

Il trasferimento dei Bowles a Tangeri nel 1947 è simbolico: una città di confine, crocevia di culture, rifugio di libertà e disordine. Tangeri era allora “città internazionale”, sospesa tra colonie e autonomie, rifugio di artisti, ribelli, esuli e avventurieri.

Per Jane fu un luogo di dolore e desiderio, per Paul di osservazione distaccata. Insieme vi vissero come stranieri permanenti, cronisti di un mondo che si dissolveva. Tangeri è specchio del presente: un luogo di globalizzazione e di conflitto, di libertà assoluta e caos estremo, dove la cultura woke si scontra con la reazione, e le comunità politiche si frammentano senza trovare equilibrio.

Perché parlarne ora

Oggi il nostro Occidente sembra attraversare il suo deserto storico. Le ideologie tradizionali sono evaporate: la sinistra non riesce a proporre alternative credibili, la cultura woke divide più di quanto unisca, la destra radicale si esprime in forme di conflitto che finiscono per divorare i propri stessi leader.

Parlare di Il tè nel deserto significa parlare di noi: Port e Kit siamo noi, smarriti in un mondo che non riconosciamo più, incapaci di capire se il viaggio che abbiamo intrapreso sia una fuga o una prova.

Come i mistici del deserto, dobbiamo imparare a leggere il vuoto: non come fine, ma come possibilità. L’Occidente, tra crisi politica e frammentazione culturale, ha davanti due strade: perdersi definitivamente, come Port, o trasformarsi nel dolore, come Kit.

Conclusione: il rito del deserto

Il romanzo di Bowles e il film di Bertolucci ci consegnano un insegnamento che oggi suona urgente: il viaggio è sempre prova, e la prova è sempre rischio e promessa.

Il nostro deserto non è solo quello geografico, ma quello culturale e spirituale che viviamo quotidianamente: tra fallimenti politici, uccisioni simboliche, culture in conflitto. Siamo chiamati a viverlo non come condanna, ma come rito di passaggio: occasione di spoliazione e di rinascita.

Se avremo la forza di guardare al deserto come fecero Gesù, gli Esseni, i Sufi e i Cenobiti, potremo trasformare questo vuoto in una nuova rivelazione. Altrimenti, come i personaggi di Bowles, saremo destinati a smarrirci in un orizzonte senza ritorno.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

#buttons=(Accetta) #days=(20)

"Questo sito utilizza cookie di Google per erogare i propri servizi e per analizzare il traffico. Il tuo indirizzo IP e il tuo agente utente sono condivisi con Google, unitamente alle metriche sulle prestazioni e sulla sicurezza, per garantire la qualità del servizio, generare statistiche di utilizzo e rilevare e contrastare eventuali abusi." Per saperne di più
Accept !
To Top