Liti tra alpinisti e montagna supercafona: ma di chi è la colpa?

 


"La montagna non è un luogo da conquistare, ma un maestro da ascoltare." Walter Bonatti

Introduzione: l’estate delle contraddizioni
L’estate del 2025 sarà ricordata come la stagione delle contraddizioni. Spiagge italiane semideserte, complice il caro-prezzi, e montagne prese d’assalto, ridotte a palcoscenico di selfie, code e maleducazione diffusa. Non è un fenomeno isolato né solo italiano: riguarda ormai tutte le catene montuose del pianeta, dalle Alpi all’Himalaya, dalle Ande alla Sierra Nevada, dal Tibet alle Montagne Rocciose negli Stati Uniti.

Ciò che un tempo era territorio di pochi, di chi aveva preparazione, rispetto e consapevolezza, oggi è diventato scenario da social network. Non importa la fatica o il silenzio, conta la foto perfetta da postare, la vetta conquistata “a pacchetto”, l’esperienza da consumare velocemente.

Ma di chi è davvero la colpa? Dei cosiddetti “supercafoni della montagna”, che si avventurano impreparati tra rifugi e ghiacciai? Degli alpinisti famosi, che invece di trasmettere valori finiscono in polemiche sterili? O di un sistema turistico e mediatico che ha reso la montagna prodotto di massa, urbanizzandola e svuotandola della sua autenticità?

La montagna come specchio della società
La montagna riflette le dinamiche della società contemporanea. Consumismo, velocità, spettacolarizzazione: ciò che vale in città, si replica ormai anche in quota.

Negli anni ’60 raggiungere un rifugio significava camminare ore, spesso senza funivie o strade asfaltate. L’esperienza stessa era insegnamento: la fatica formava rispetto. Oggi, in molti casi, basta una cabinovia ultramoderna, un sentiero di pochi minuti, e ci si ritrova di colpo in alta quota. Senza preparazione, senza conoscenza, senza ascolto.

Il problema non è solo logistico, ma culturale. La montagna è diventata contenuto digitale, sfondo per storie e reel, non più luogo da vivere con lentezza.

Un fenomeno planetario: dalle Alpi all’Himalaya
Gli episodi di maleducazione e sovraffollamento che hanno segnato le Dolomiti o il Gran Sasso non sono diversi da quelli osservati altrove.

  • Everest e Himalaya: le immagini delle code interminabili a quota 8.000 metri hanno fatto il giro del mondo. Scalatori fermi per ore, esposti a temperature glaciali, solo per poter dire “c’ero anch’io”. Molti senza la minima preparazione tecnica, guidati da spedizioni commerciali che vendono la cima come un biglietto aereo. Il risultato? Morti evitabili, rifiuti accumulati in alta quota, tensioni tra alpinisti e guide locali.
  • Tibet: i monasteri e le valli sacre, un tempo luoghi di raccoglimento, oggi sono attraversati da frotte di turisti rumorosi, spesso indifferenti al significato spirituale. Anche qui, il silenzio è stato sostituito dal rumore dei droni e dalla ricerca compulsiva della foto da cartolina.
  • Ande peruviane: il Machu Picchu e la Vinicunca, la montagna dei sette colori, sono diventati casi da manuale di overtourism. Le autorità hanno imposto limiti giornalieri agli ingressi, ma la pressione resta altissima. Ogni passo di migliaia di turisti erode terreni fragili, mentre le comunità locali vedono crescere i guadagni ma perdere identità culturale.
  • Stati Uniti: nei parchi nazionali della Sierra Nevada o delle Montagne Rocciose, i ranger parlano apertamente di “Disneyficazione della natura”. Sentieri congestionati, animali selvatici disturbati, incidenti sempre più frequenti per turisti impreparati. In Yosemite, capita spesso di vedere persone che si arrampicano su rocce pericolose solo per scattare la foto “virale”.

Ovunque, il copione è lo stesso: territori fragili trasformati in Luna Park.

I “cafoni” della montagna: vittime o carnefici?
È facile prendersela con chi lascia spazzatura nei prati, accende casse bluetooth nei rifugi o sale in ciabatte su un sentiero ghiacciato. Ma davvero il problema è solo loro?

Chi oggi viene bollato come “supercafone” è spesso vittima di un sistema che ha spinto a frequentare la montagna senza fornire strumenti culturali minimi. Spot televisivi, influencer sponsorizzati, pacchetti turistici che promettono “emozioni estreme alla portata di tutti”.

Se presenti la montagna come parco giochi instagrammabile, non puoi stupirti se poi viene trattata come tale. In fondo, il turista consuma ciò che gli viene offerto.

Gli alpinisti in lite: custodi mancati dei valori
Il 2025 ha visto un altro spettacolo poco edificante: le liti tra grandi alpinisti. Marco Confortola accusato di falsificare alcune conquiste sugli Ottomila, contrapposto a Simone Moro, Silvio Mondinelli e persino Reinhold Messner.

Un tempo gli alpinisti erano visti come testimoni di valori: umiltà, solidarietà, rispetto. Oggi troppo spesso appaiono come ego ipertrofici, pronti a contendersi primati o a demolire l’avversario mediatico.

E non accade solo in Italia. In Nepal guide locali e spedizioni occidentali litigano per i permessi, in Patagonia alcune cordate si accusano a vicenda di “rubarsi le vie”. Il narcisismo non risparmia nessuno, e la montagna rischia di diventare anche qui teatro di vanità.

Quando la montagna diventa città
La montagna è stata urbanizzata. Non solo con hotel e impianti, ma con logiche da città.

Abbiamo portato in quota i comfort cittadini: wifi ovunque, menù gourmet nei rifugi, funivie ultraveloci che cancellano la fatica. Abbiamo tolto il silenzio, la lentezza, il rischio. Abbiamo reso la montagna comoda e fruibile, ma così l’abbiamo snaturata.

In passato la difficoltà selezionava chi saliva. Oggi chiunque arriva, senza filtri. Abbiamo tolto la barriera della fatica, e con essa abbiamo tolto il rispetto.

Il turismo di massa in quota: numeri e conseguenze
Gli effetti sono tangibili:

  • Soccorso alpino sempre più oberato: in Italia, interventi quasi quotidiani per recuperare persone in sandali, senza acqua o con crisi di panico.
  • Ambiente fragile sotto pressione: sentieri erosi, prati trasformati in parcheggi improvvisati, fauna disturbata.
  • Rifiuti ovunque: dall’Everest, dove si stimano oltre 50 tonnellate di immondizia accumulate in quota, fino alle Dolomiti, dove bottiglie e lattine compaiono a ogni sosta panoramica.
  • Comunità locali sotto stress: villaggi che vedono aumentare i guadagni, ma perdere identità culturale. Giovani che lavorano solo nel turismo, abbandonando mestieri tradizionali.

Il turismo di massa porta ricchezza, certo, ma al prezzo di una montagna svuotata della sua essenza.

La responsabilità degli operatori e delle istituzioni
È troppo facile puntare il dito solo sui turisti. Gli operatori turistici e le istituzioni locali hanno alimentato questo modello. Ogni volta che si apre un nuovo impianto, che si lancia una campagna promozionale basata su “emozioni per tutti”, si spinge verso l’inflazione della montagna.

Gli stessi rifugisti che oggi denunciano i maleducati, ieri hanno ampliato i loro spazi per accogliere più gente. Gli stessi enti che parlano di tutela, ieri promuovevano spot in prima serata con Dolomiti vendute come set di “Temptation Island”.

Montagna e social network: la dittatura dell’immagine
La montagna, con i suoi panorami mozzafiato, è perfetta per i social. Ma il prezzo è altissimo: la dittatura dell’immagine ha sostituito la cultura dell’esperienza.

Non conta più il cammino, conta la foto finale. Non conta la fatica, conta il like ricevuto. Non conta il silenzio, conta la musica di sottofondo nel reel.

E così la montagna si svuota: diventa sfondo scenografico, non più maestro di vita.

Lezioni dal passato: quando il turismo era lento
Negli anni del dopoguerra, salire in quota era educazione alla pazienza. Si imparava a camminare, ad ascoltare, a rispettare i tempi della natura. I rifugi erano spartani, i racconti dei gestori insegnavano più di mille manuali.

Oggi la montagna è stata disintermediata: non serve più il CAI, non servono le guide alpine, basta un’app con il percorso geolocalizzato. Si perde così la trasmissione culturale che garantiva rispetto.

Il futuro: tre possibili scenari

  1. Continuare così
    La montagna diventa sempre più “supercafona”, i luoghi iconici si trasformano in Luna Park, e le comunità locali spingono per restrizioni drastiche.

  2. Chiudere e limitare
    Alcune aree vengono contingentate o chiuse, come Machu Picchu o certi parchi americani. Ingresso a numero chiuso, prenotazione obbligatoria, multe severe. Soluzione drastica, ma rischiosa: la montagna diventa bene elitario.

  3. Educare e responsabilizzare
    La via più difficile, ma l’unica sostenibile: educare alla cultura alpina, rafforzare il ruolo delle guide, dare centralità alle comunità locali. Non vietare, ma insegnare. Non mercificare, ma trasmettere valori.

Conclusione: di chi è la colpa?
La colpa è collettiva. Dei turisti che si comportano da consumatori distratti, degli alpinisti che litigano invece di testimoniare valori, degli operatori che hanno scelto la quantità alla qualità, delle istituzioni che hanno preferito lo spot alla cultura.

Ma la montagna, a differenza di altri luoghi, non perdona. È fragile agli abusi, ma forte nel ricordarci che le sue leggi non sono negoziabili.

Se non impariamo ad ascoltarla, non sarà lei a perdere: saremo noi.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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