Draghi a Rimini, Von der Leyen a Bruxelles: il sonno dell’Europa genera mostri

 

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"Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare." Seneca

Mario Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro con il celebre “whatever it takes”, si è ritrovato a Rimini, al Meeting di Comunione e Liberazione, a fare ciò che nessuno a Bruxelles sembra più capace di fare: dire l’ovvio. Parlare chiaro. Indicare la strada.

La scena, in sé, è già un paradosso politico e simbolico: l’ex presidente della Banca Centrale Europea, ex premier italiano, figura di rilievo mondiale, a tenere una lezione di economia e geopolitica in una kermesse semireligiosa, mentre a Bruxelles Ursula von der Leyen e la sua Commissione galleggiano tra promesse mancate, dossier inevasi e una burocrazia che paralizza più di quanto costruisca.

Che ci faceva Draghi a Rimini? La risposta è semplice e devastante: svolgeva il mestiere che dovrebbe spettare alla Commissione Europea, cioè mettere in chiaro le priorità, mostrare i numeri, denunciare le incongruenze. Laddove l’istituzione comunitaria tace o cincischia, un tecnico — diventato simbolo di affidabilità internazionale — prende il microfono e mette i puntini sulle “i”.

Ecco la differenza: mentre a Bruxelles si parla di strategie e “roadmap” che restano sulla carta, Draghi snocciola cifre brutali. Barriere interne equivalenti a dazi del 64% sui macchinari e del 95% sui metalli. Promesse mai rispettate sul “28esimo regime”, miliardi gettati nella difesa comune, dipendenza tecnologica da USA e Cina.

Il risultato? L’Europa predica integrazione ma pratica divisione. Promette competitività e produce inefficienza. Sogna sovranità tecnologica, ma resta un vassallo dei giganti globali.

Rimini, il Meeting di Comunione e Liberazione, la grande fiera cattolico-lombarda, diventa così una metafora del declino. Non Bruxelles, non Strasburgo, non Berlino o Parigi: è in Romagna che Draghi deve dire ad alta voce ciò che a Bruxelles non si osa ammettere. Che un uomo del suo calibro debba venire a Rimini a ricordare che il mercato unico non funziona è la fotografia perfetta del fallimento europeo.

La Commissione aveva promesso entro fine anno un piano anti-dazi interni. Promesso, appunto. Bruxelles è maestra in questa arte: fissare scadenze, annunciare svolte, riempire dossier di acronimi e buone intenzioni. Poi, alla prova dei fatti, tutto evapora.

Il famoso “28esimo regime” — che dovrebbe permettere alle PMI di operare liberamente in tutta Europa senza aprire filiali in ogni Paese — resta un miraggio. Come l’Unione Bancaria mai completata. Come la Difesa comune sempre evocata e mai costruita.

Von der Leyen e i suoi commissari vivono in una dimensione parallela fatta di conferenze stampa e slogan. Intanto le imprese europee si scontrano con giustizie amministrative lente, burocrazie soffocanti, certificazioni duplicate e costi folli.

Draghi lo dice chiaramente: “Nessun Paese che voglia sovranità può permettersi di essere escluso dalle tecnologie critiche”. Gli USA investono decine di miliardi nei semiconduttori, la Cina controlla le terre rare, l’Europa balbetta.

Si spende, sì, ma in modo dispersivo: ogni Stato fa il suo piccolo progettino, con i suoi micro-finanziamenti e i suoi interessi particolari. Bruxelles non coordina: si limita a concedere aiuti di Stato, come se l’Unione fosse un condominio litigioso in cui ognuno ristruttura il proprio appartamento mentre l’edificio intero cade a pezzi.

La tanto sbandierata “sovranità digitale” è solo un mantra vuoto. L’Europa dipende dagli Stati Uniti per i software, dalla Cina per le terre rare, da Taiwan per i chip. Sovranità? Fantascienza.

Draghi ha ricordato i 2 trilioni di euro che gli Stati europei si preparano a spendere in spese militari entro il 2031. Una cifra colossale. Ma con quali fondamenta? Si parla di difesa comune, ma non si riesce neppure a uniformare le gare d’appalto. Ogni Paese compra ciò che vuole, con procedure diverse, con tempi incompatibili.

È come costruire un esercito europeo con soldati che non parlano la stessa lingua. Bruxelles sogna la NATO europea, ma non riesce nemmeno a garantire che due Stati membri abbiano lo stesso calibro di munizioni.

E qui entra in scena Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione è diventata la regina del rinvio, la sacerdotessa delle promesse che non si realizzano mai. Sul clima ha oscillato tra Green Deal e deroghe infinite. Sull’industria ha prodotto piani senza attuazione. Sulla tecnologia ha balbettato slogan.

Draghi, da Rimini, ha fatto quello che lei non ha mai osato: dire che così l’Europa non è soltanto marginale, è irrilevante.

Il paradosso è grottesco: mentre Draghi viene applaudito da una platea di cattolici e manager lombardi, a Bruxelles si continuano a scrivere comunicati che non leggerà nessuno.

Ecco il rischio: l’Europa si trasforma in un museo delle buone intenzioni, una gigantesca macchina che produce regolamenti e linee guida ma non risultati concreti.

Il mondo corre. Washington e Pechino giocano la partita vera. Bruxelles discute di procedure.

Se Draghi deve venire a Rimini per ricordarlo, significa che la politica comunitaria è già fallita. Non nella teoria dei Trattati, ma nella pratica quotidiana.

Il messaggio è brutale: Draghi scuote, Bruxelles dorme. Rimini diventa più importante di Strasburgo, perché almeno lì qualcuno osa dire l’ovvio.

Von der Leyen e la sua Commissione restano prigioniere di giochi di potere, gelosie nazionali e liturgie burocratiche. L’Europa così si condanna all’irrilevanza.

E forse il dettaglio più significativo è proprio questo: non è la Commissione a guidare il dibattito sul futuro del continente, ma un ex premier italiano costretto a farlo da un palco romagnolo.

Se questa non è la fotografia del fallimento politico europeo, cos’altro lo è?

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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