Molti osservatori, alla vigilia, si aspettavano un dialogo interlocutorio, con Trump nel ruolo di mediatore tra un Cremlino desideroso di legittimazione e un Occidente diviso tra sostegno a Kiev e stanchezza di guerra. Invece, ciò che è emerso è stato molto di più: una piattaforma negoziale precisa, quasi ultimativa, che Putin ha imposto al tavolo e che Trump, in parte, ha fatto propria.
Il messaggio che arriva da Anchorage è chiaro: Mosca non cerca un cessate il fuoco temporaneo, ma una ridefinizione strutturale dell’ordine europeo, con l’Ucraina ridotta a stato neutrale, mutilato territorialmente e privo di prospettive euro-atlantiche.
Sono richieste che travalicano il caso ucraino: mirano a reimporre una logica di sfere d’influenza, come se il 2025 fosse un ritorno al 1945. Il Cremlino non si accontenta di consolidare i guadagni ottenuti sul campo: vuole ridisegnare la geografia politica europea.
Perché? In parte per ragioni interne: la sua base elettorale, stanca delle spese miliardarie per Kiev, chiede di porre fine a un conflitto visto come lontano e secondario. In parte per calcolo geopolitico: Trump considera la Cina la vera minaccia strategica e tende a immaginare la Russia come un potenziale partner o quantomeno un avversario da neutralizzare con concessioni. E infine per ego diplomatico: l’idea di presentarsi come il leader capace di fermare la guerra, poco importa a che prezzo per gli alleati.
Il risultato è che Washington appare meno compatta che mai. Per alcuni, Trump è il realista che evita l’escalation; per altri, è l’uomo che cede al ricatto del Cremlino.
Kiev ha ribadito che non ci sarà alcuna pace senza il pieno ripristino dei confini internazionalmente riconosciuti. E ha rilanciato chiedendo garanzie di sicurezza vincolanti, equivalenti a quelle previste dall’articolo 5 della NATO. In sostanza: se non NATO de jure, almeno NATO de facto.
Il summit ha dunque accentuato la frattura Est-Ovest all’interno dell’Unione europea. Per gli stati confinanti con la Russia, Anchorage è stato il segnale che nessuno è al sicuro. Per quelli mediterranei, è un promemoria che la guerra in Ucraina rischia di allontanare risorse da altre priorità, come il Mediterraneo e l’Africa.
Sul piano interno, questo rafforza la narrativa di un leader invincibile, capace di resistere alle sanzioni e di piegare gli avversari al tavolo negoziale. Sul piano esterno, legittima Mosca come attore ineludibile.
Un eventuale accordo alle condizioni russe solleverebbe anche il tema della ricostruzione ucraina: chi pagherà la rinascita di un paese mutilato? E chi investirà in una nazione la cui sicurezza resterebbe perennemente minacciata?
La questione energetica resta centrale: Mosca punta a mantenere leve di pressione sui mercati globali, mentre l’Europa cerca disperatamente di diversificare. La guerra non è solo sui campi del Donbass, ma nei prezzi del gas e del grano.
Un’Ucraina mutilata e neutrale rischierebbe di essere solo l’ennesimo tassello di questo mosaico. Ma con una differenza: le dimensioni del paese e la sua collocazione strategica renderebbero la ferita ben più grave e destabilizzante.
In Europa prevale la stanchezza. I cittadini dei Paesi baltici e della Polonia temono direttamente per la loro sicurezza; quelli dell’Europa occidentale guardano con crescente fastidio alle conseguenze economiche della guerra. In Ucraina, infine, il sentimento dominante resta la resistenza: nessuno accetta l’idea di cedere territori, neppure in cambio della pace.
Un accordo che legittimi la conquista di territori con la forza creerebbe un precedente pericoloso anche in Asia: Taiwan, in particolare, diventerebbe più vulnerabile a rivendicazioni aggressive. In questo senso, Anchorage non riguarda solo l’Europa, ma l’intero equilibrio mondiale.
Nessuna di queste opzioni garantisce stabilità. Tutte, in modo diverso, alimentano l’incertezza.
Il vero nodo non è se Putin abbia vinto il vertice: è se l’Occidente abbia ancora la volontà e la capacità di difendere i principi su cui ha fondato la propria legittimità. Una pace alle condizioni del Cremlino sarebbe una pace mutilata, gravida di futuri conflitti.
La storia insegna che la logica dell’appeasement non porta stabilità, ma nuove aggressioni. Yalta congelò l’Europa per mezzo secolo. Anchorage rischia di aprire una fase di gelo ancora più pericolosa, in un mondo interconnesso e multipolare.
Carlo Di Stanislao