Dopo l’Alaska: il ritorno di Putin e il rischio di una pace mutilata

 


"Chi si inchina troppo finirà per mostrare il deretano a qualcuno." Nikita Chruščëv

Introduzione: il vertice che ha cambiato il ritmo della guerra
Il summit di Anchorage del 15 agosto 2025 tra Donald Trump e Vladimir Putin non è stato soltanto un incontro bilaterale. È stato, piuttosto, un momento simbolico che ha segnato il ritorno di Putin come protagonista sulla scena diplomatica internazionale, dopo anni di isolamento relativo seguito all’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022.

Molti osservatori, alla vigilia, si aspettavano un dialogo interlocutorio, con Trump nel ruolo di mediatore tra un Cremlino desideroso di legittimazione e un Occidente diviso tra sostegno a Kiev e stanchezza di guerra. Invece, ciò che è emerso è stato molto di più: una piattaforma negoziale precisa, quasi ultimativa, che Putin ha imposto al tavolo e che Trump, in parte, ha fatto propria.

Il messaggio che arriva da Anchorage è chiaro: Mosca non cerca un cessate il fuoco temporaneo, ma una ridefinizione strutturale dell’ordine europeo, con l’Ucraina ridotta a stato neutrale, mutilato territorialmente e privo di prospettive euro-atlantiche.

Le richieste russe: un’agenda per riscrivere l’Europa
Putin non ha usato giri di parole. Di fronte alle telecamere e, ancor più, a porte chiuse, ha elencato le condizioni che secondo lui possono condurre alla “pace”: controllo totale di Donetsk e Luhansk con ritiro delle truppe ucraine, un accordo definitivo e non un cessate il fuoco temporaneo, la neutralità permanente dell’Ucraina, il riconoscimento internazionale delle annessioni territoriali già compiute e lo stop all’espansione NATO.

Sono richieste che travalicano il caso ucraino: mirano a reimporre una logica di sfere d’influenza, come se il 2025 fosse un ritorno al 1945. Il Cremlino non si accontenta di consolidare i guadagni ottenuti sul campo: vuole ridisegnare la geografia politica europea.

La posizione di Trump: dalla tregua all’accordo
Il cambiamento più significativo non è tanto nelle parole di Putin, quanto nella reazione di Trump. Inizialmente favorevole a un cessate il fuoco immediato, l’ex presidente americano ha rapidamente sposato la linea di un accordo di pace globale.

Perché? In parte per ragioni interne: la sua base elettorale, stanca delle spese miliardarie per Kiev, chiede di porre fine a un conflitto visto come lontano e secondario. In parte per calcolo geopolitico: Trump considera la Cina la vera minaccia strategica e tende a immaginare la Russia come un potenziale partner o quantomeno un avversario da neutralizzare con concessioni. E infine per ego diplomatico: l’idea di presentarsi come il leader capace di fermare la guerra, poco importa a che prezzo per gli alleati.

Il risultato è che Washington appare meno compatta che mai. Per alcuni, Trump è il realista che evita l’escalation; per altri, è l’uomo che cede al ricatto del Cremlino.

La risposta di Kiev: nessuna resa, nessuna pace imposta
Volodymyr Zelenskyy ha reagito con fermezza. Accettare le condizioni russe significherebbe, dal punto di vista ucraino, legittimare l’aggressione del 2022, aprire la strada a nuove offensive future e minare irreversibilmente la sovranità nazionale.

Kiev ha ribadito che non ci sarà alcuna pace senza il pieno ripristino dei confini internazionalmente riconosciuti. E ha rilanciato chiedendo garanzie di sicurezza vincolanti, equivalenti a quelle previste dall’articolo 5 della NATO. In sostanza: se non NATO de jure, almeno NATO de facto.

L’Europa tra paura e divisioni
In Europa il vertice ha fatto esplodere contraddizioni già latenti. Germania e Francia hanno espresso preoccupazione: non possono accettare un accordo che umili Kiev, ma allo stesso tempo temono una rottura con Washington. I Paesi baltici e la Polonia hanno reagito con indignazione, denunciando la resa come un tradimento dei principi occidentali. Italia e Spagna hanno invitato alla prudenza, chiedendo realismo e unità, ma senza sbilanciarsi troppo.

Il summit ha dunque accentuato la frattura Est-Ovest all’interno dell’Unione europea. Per gli stati confinanti con la Russia, Anchorage è stato il segnale che nessuno è al sicuro. Per quelli mediterranei, è un promemoria che la guerra in Ucraina rischia di allontanare risorse da altre priorità, come il Mediterraneo e l’Africa.

La Russia esulta: Putin vincitore sul piano interno
In patria, Putin è tornato come un vincitore. I media controllati dal Cremlino hanno celebrato Anchorage come la prova che la Russia è tornata al centro del mondo e che persino gli Stati Uniti devono riconoscere la sua forza.

Sul piano interno, questo rafforza la narrativa di un leader invincibile, capace di resistere alle sanzioni e di piegare gli avversari al tavolo negoziale. Sul piano esterno, legittima Mosca come attore ineludibile.

Le ripercussioni economiche: sanzioni, energia, ricostruzione
Dietro il linguaggio della geopolitica c’è la dura realtà economica. Le sanzioni occidentali hanno colpito la Russia, ma non l’hanno piegata: Mosca ha trovato sbocchi alternativi, in particolare verso la Cina e l’India. L’Europa, invece, ha pagato un prezzo elevato in termini di inflazione energetica e rallentamento industriale.

Un eventuale accordo alle condizioni russe solleverebbe anche il tema della ricostruzione ucraina: chi pagherà la rinascita di un paese mutilato? E chi investirà in una nazione la cui sicurezza resterebbe perennemente minacciata?

La questione energetica resta centrale: Mosca punta a mantenere leve di pressione sui mercati globali, mentre l’Europa cerca disperatamente di diversificare. La guerra non è solo sui campi del Donbass, ma nei prezzi del gas e del grano.

Conflitti congelati: lezioni dal passato
Il modello che sembra delinearsi è quello del “conflitto congelato”, tipico della tradizione post-sovietica. La Transnistria in Moldova, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud in Georgia, il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian: tutti esempi in cui Mosca ha imposto situazioni di stallo che hanno impedito una normalizzazione.

Un’Ucraina mutilata e neutrale rischierebbe di essere solo l’ennesimo tassello di questo mosaico. Ma con una differenza: le dimensioni del paese e la sua collocazione strategica renderebbero la ferita ben più grave e destabilizzante.

L’opinione pubblica: USA, Russia, Europa, Ucraina
In Russia, l’opinione pubblica è nutrita da una narrazione trionfalista. Negli Stati Uniti, invece, la società è divisa: l’elettorato trumpiano vede nella pace un successo, mentre gran parte del mondo democratico considera Anchorage un cedimento.

In Europa prevale la stanchezza. I cittadini dei Paesi baltici e della Polonia temono direttamente per la loro sicurezza; quelli dell’Europa occidentale guardano con crescente fastidio alle conseguenze economiche della guerra. In Ucraina, infine, il sentimento dominante resta la resistenza: nessuno accetta l’idea di cedere territori, neppure in cambio della pace.

Gli equilibri globali: la Cina osserva
Non bisogna dimenticare che, mentre gli occhi sono puntati su Anchorage, Pechino osserva. La Cina ha tutto l’interesse a una Russia non sconfitta, che resti un partner minore ma fedele. Allo stesso tempo, un Occidente diviso è il miglior scenario possibile per Xi Jinping.

Un accordo che legittimi la conquista di territori con la forza creerebbe un precedente pericoloso anche in Asia: Taiwan, in particolare, diventerebbe più vulnerabile a rivendicazioni aggressive. In questo senso, Anchorage non riguarda solo l’Europa, ma l’intero equilibrio mondiale.

Gli scenari futuri: pace o gelo?
Tre scenari sono plausibili. Primo: un accordo imposto, che congelerebbe la situazione a vantaggio di Mosca ma lascerebbe aperte tensioni future. Secondo: una resistenza ucraina con sostegno europeo, scenario possibile solo se l’UE compie un salto nella difesa comune. Terzo: il prolungamento del conflitto, con una guerra a bassa intensità che diventa cronica.

Nessuna di queste opzioni garantisce stabilità. Tutte, in modo diverso, alimentano l’incertezza.

Conclusione: il dorso mostrato
La citazione di Chruščëv fotografa bene la dinamica di Anchorage. Nel tentativo di apparire come pacificatore, Trump ha mostrato a Putin la disponibilità americana a concedere. Ma chinarsi troppo, in geopolitica, significa offrire il deretano.

Il vero nodo non è se Putin abbia vinto il vertice: è se l’Occidente abbia ancora la volontà e la capacità di difendere i principi su cui ha fondato la propria legittimità. Una pace alle condizioni del Cremlino sarebbe una pace mutilata, gravida di futuri conflitti.

La storia insegna che la logica dell’appeasement non porta stabilità, ma nuove aggressioni. Yalta congelò l’Europa per mezzo secolo. Anchorage rischia di aprire una fase di gelo ancora più pericolosa, in un mondo interconnesso e multipolare.

Carlo Di Stanislao

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