A pochi chilometri dal centro di Dublino, quando il rumore del traffico lascia spazio al respiro dell’oceano, appare il promontorio di Howth, Beann Éadair in gaelico. Non una montagna nel senso alpino, ma un rilievo scolpito da vento e mare, che da secoli domina la baia custodendo storie e leggende. James Joyce lo trasformò in una delle figure centrali del proprio universo letterario: il capo di un gigante addormentato, corpo di pietra che veglia sulla città e sul destino dell’uomo.
La geografia mitica di Howth
Capo Howth non è solo una formazione geologica; è un simbolo, un'entità viva che Joyce ha trasformato in un gigante addormentato. Secondo la mitologia joyciana, la caduta del gigante ha generato una morte apparente, e il suo corpo giace disteso lungo la città di Dublino: la testa forma Capo Howth, mentre i piedi riposano a Phoenix Park, attraversando l'intera città come un corpo mitologico che racconta la storia dell'umanità.
Le cosiddette Dublin Mountains non superano gli ottocento metri. Sono colline cresciute, dolci dorsali più che catene severe. L’Irlanda non è terra di vette, ma di scogliere che precipitano in mare, torbiere e brughiere animate da fiabe e racconti popolari. In questo paesaggio incantato si inscrive Howth, promontorio che segna il confine nord della baia di Dublino, controparte del meridionale Bray Head.
Per il giovane Joyce, cresciuto proprio a Bray, Howth esercitava un fascino magnetico. Dal soggiorno di casa poteva scorgerlo in lontananza: era già allora un luogo di confine, promessa di viaggio e di rivelazione. Non a caso, nei suoi scritti, i due estremi si fondono nella parola inventata “Brayhowth”, sintesi di memoria e mito.
Howth nell’Ulisse e nel Finnegans Wake
Nell’Ulisse (1922), Howth diventa il teatro dell’amore. È lì che Leopold Bloom e Molly Dedalus si baciano per la prima volta, tra i rododendri, in una scena che riaffiora nel monologo conclusivo di Molly: il giorno della proposta, il sole, il vestito di tweed grigio. Un promontorio che non è semplice scenario naturale, ma epifania di eros e destino.
Tuttavia, è in Finnegans Wake (1939) che Howth assume una dimensione mitica e universale. Il promontorio diventa il corpo di Finn mac Cumhaill, il leggendario eroe celtico, disteso lungo la piana di Dublino. Questa trasposizione mitologica non è solo un gioco letterario, ma un atto di riscrittura della storia e della geografia, dove ogni elemento acquista un significato simbolico profondo.
Il linguaggio di Finnegans Wake
Finnegans Wake è noto per il suo linguaggio innovativo e complesso. Joyce ha creato una lingua poliglotta, un'idioglossa composta da parole provenienti da oltre sessanta lingue diverse, combinate per formare giochi di parole e significati multipli. Questa scelta linguistica riflette la visione di Joyce di una narrativa che trascende i confini linguistici e culturali, creando un testo che è allo stesso tempo universale e profondamente radicato nella cultura irlandese.
Il mito di Finnegan
Il titolo Finnegans Wake deriva da una ballata popolare irlandese che racconta la storia di Tim Finnegan, un muratore che, dopo essere caduto da una scala e ritenuto morto, si risveglia durante la sua veglia funebre. Questo racconto di morte e resurrezione diventa una metafora del ciclo della vita e della morte, temi centrali nell'opera di Joyce.
La scelta di Joyce di rimuovere l'apostrofo dal titolo suggerisce una pluralità di significati, indicando che la storia di Finnegan è quella di tutti noi, un ciclo continuo di caduta e rinascita.
Visioni blakeane e nuova mitologia
Joyce dialoga con William Blake e con il suo Jerusalem, l’emanazione del gigante Albione. Come Albione per Blake, anche il gigante di Joyce rappresenta non solo un corpo, ma un’intera umanità in bilico tra caduta e rinascita.
Non a caso, il promontorio si trasfigura in “Cape of Good Howth”: un gioco di parole che richiama il Capo di Buona Speranza, simbolo di scoperte e ripartenze. Howth non è solo geografia: è luogo di rinascita, promessa che la voce del gigante tornerà a farsi udire.
Howth oggi: mito e identità
Scrivere oggi di Howth non è un esercizio nostalgico. Significa riflettere su come i luoghi diventino paesaggi solo quando sono abitati dalle storie.
L’Irlanda contemporanea, globalizzata e attrattiva per turisti e multinazionali, rischia di smarrire la propria radice culturale. Ma proprio in questo contesto Howth rivive: è tappa di itinerari letterari, meta di lettori e viaggiatori che risalgono i suoi sentieri per ritrovare l’eco di Bloom e Molly, o la voce del gigante di pietra.
Nei pub della capitale, la ballata di Finnegan’s Wake continua a essere cantata, mescolando ironia e resurrezione. Nella letteratura mondiale, Joyce rimane il simbolo di un racconto popolare capace di farsi universale, di un linguaggio che si rinnova e che insegna a leggere i paesaggi come testi, e i testi come paesaggi.
Il ponte con la tradizione letteraria italiana
La visione di Joyce di un paesaggio che è anche testo trova eco nella tradizione letteraria italiana. Pier Paolo Pasolini, ad esempio, ha esplorato la relazione tra paesaggio e identità culturale, utilizzando il territorio come metafora per raccontare le trasformazioni sociali e politiche. Italo Calvino, con la sua attenzione ai dettagli e alla struttura, ha mostrato come la letteratura possa rivelare le connessioni nascoste tra gli elementi del mondo. Cesare Pavese, infine, ha indagato il legame profondo tra l’individuo e il paesaggio, suggerendo che i luoghi portano in sé le storie e le memorie di chi li abita.
Come Joyce con Howth, anche questi autori hanno trasformato luoghi concreti in simboli universali, utilizzando la letteratura per esplorare le profondità dell’esperienza umana e della memoria collettiva.
Perché parlarne oggi
Capo Howth è il ricordo vivo di come la letteratura dia forma al mondo. In tempi che spesso riducono la cultura a consumo veloce, tornare a Joyce significa riscoprire la potenza del mito come strumento di resistenza, come resurrezione continua della voce umana.
Il gigante di Howth, disteso ma non morto, ci ricorda che ogni caduta può generare rinascita, che i luoghi custodiscono le nostre storie e che l’immaginazione resta il vero atto politico.
Per noi lettori italiani, significa riconoscere che la memoria dei luoghi non appartiene solo all’Irlanda, ma anche alla nostra tradizione. Pasolini ci ha insegnato che i paesaggi urbani e rurali sono depositi di memoria popolare, Calvino ha mostrato che le città reali e quelle invisibili si rispecchiano a vicenda, e Pavese ci ha ricordato che “un paese ci vuole”, perché i luoghi portano in sé le storie e le memorie di chi li abita.
Come Joyce con Howth, anche loro hanno trasformato colline, campagne e città italiane in simboli universali. È in questa corrispondenza che possiamo ritrovare il senso più autentico del nostro rapporto con la terra e con le parole.
E allora, come scrive Joyce, non resta che ascoltare ancora una volta la voce del gigante:
“Il vecchio Howth bianco sta di nuovo parlando.”
Haiku di Italo Nostromo
Onde sussurrano,
sotto il cielo di piombo,
silenzio d’acciaio.
Carlo Di Stanislao