Ucraina-Russia: tra speranze di pace, ombre sulla democrazia e la grande questione della sicurezza europea

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"La pace non è l'assenza della guerra, ma una virtù, uno stato d'animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia." Baruch Spinoza

Mentre a Istanbul riprendono i negoziati tra Russia e Ucraina, un interrogativo si insinua sotto la superficie delle cronache quotidiane: che tipo di pace stiamo cercando?

Una che semplicemente faccia tacere i cannoni, o una che affronti fino in fondo le tensioni irrisolte del continente europeo?

Dopo oltre tre anni di guerra, le diplomazie si muovono a fatica su un terreno minato: milioni di profughicittà distruttevite spezzate, e un tessuto geopolitico europeo che sembra più lacerato che mai. In questo contesto, il presidente ucraino Zelensky ha dichiarato di essere pronto a cercare una via d’uscita. Una pace giusta, afferma, che riporti indietro i prigionieri, i bambini deportati, che restituisca all’Ucraina dignità e sovranità. Ma le condizioni poste sul tavolo da Mosca restano rigide e, in apparenza, inconciliabili.

Eppure, è proprio in questi momenti che la riflessione deve diventare più radicale, più scomoda, più profonda. È lecito indignarsi per l’aggressione russa. È doveroso sostenere un popolo sotto attacco. Ma è anche indispensabile, se vogliamo davvero la pace, capire fino in fondo le dinamiche che hanno condotto a questo abisso.

La Russia non è semplicemente “il nemico”. È una potenza in declino, ferita, che percepisce il proprio spazio vitale come minacciato. Ha, come ogni nazione sovrana, il diritto sacrosanto di non essere circondata da alleanze ostili. È un diritto che non giustifica la guerra, ma che merita ascolto, se davvero la sicurezza europea vuole diventare un progetto condiviso e non un braccio di ferro permanente.

Perché non è solo Kiev a tremare sotto le bombe. È l’intero ordine europeo che vacilla sotto il peso delle sue ambiguità:
– Si può davvero costruire la pace ignorando le paure altrui?
– Possiamo parlare di cooperazione, continuando a estendere confini militari verso est come se la Guerra Fredda non fosse mai finita?
– È possibile una sicurezza collettiva in Europa senza un patto nuovo tra est e ovest, tra Unione Europea e Russia, tra democrazie e autocrazie?

In parallelo, emergono inquietudini interne. L’Ucraina, eretta a baluardo della libertà, mostra crepe crescenti nel proprio sistema democratico. Le pressioni dell’economia di guerra, l’accentramento del potere presidenziale, i colpi inferti all’indipendenza della magistratura e dei media, sollevano interrogativi seri. L’Unione Europea, pur determinata nel sostegno, ha cominciato a lanciare segnali di allarme: democrazia, stato di diritto, trasparenza – questi non possono essere valori negoziabili.

Qui si apre una domanda di fondo: che tipo di Ucraina vogliamo aiutare a costruire?
Una forte solo militarmente, ma fragile istituzionalmente? Oppure una repubblica solida, capace di diventare esempio e non solo avamposto?

La storia recente insegna che il sostegno incondizionato, quando cieco, può diventare un boomerang. L’Afghanistan, la Libia, perfino l’Iraq, sono lì a ricordarci cosa succede quando si scambia l’alleanza militare per amicizia storica, e la resistenza armata per maturità democratica.

È allora tempo di dire ad alta voce ciò che in molti pensano solo in privato: la vera pace non si costruisce né con le bombe né con le ipocrisie. Si costruisce con la verità, il coraggio e l’ascolto profondo anche delle ragioni scomode.

Spinoza ci ricorda che la pace è una virtù. Non un compromesso tattico, ma un gesto morale, un equilibrio interiore che una civiltà deve avere per trascendere la logica dell’amico e del nemico.

Ma forse oggi ci manca anche un altro ingrediente, più antico e spesso dimenticato: l’intelligenza della "Pax Romana". Non fu solo un’imposizione imperiale, ma una strategia di lungo respiro fondata su integrazione, infrastrutture comuni, diritto condiviso, riconoscimento delle identità locali e cooperazione tra territori diversi sotto un ordine più grande.
La Pax Romana seppe garantire per secoli stabilità a un mosaico di culture e popoli, proprio perché non pretendeva uniformità, ma coltivava l’unità attraverso il rispetto dei limiti e delle esigenze reciproche.
Oggi, in un’Europa che si illude di poter esportare modelli senza ascoltare la geografia e la storia, forse quella antica saggezza strategica andrebbe recuperata, non per nostalgia, ma per lucidità.

Se oggi l’Europa ha davvero un ruolo da giocare, non può limitarsi a schierarsi. Deve offrire una visione, una proposta culturale prima ancora che politica, una nuova architettura della convivenza, in cui anche le potenze in conflitto possano trovare un linguaggio comune.

Non sarà facile. Servirà immaginazione, visione, lungimiranza. Ma soprattutto servirà un nuovo concetto di vittoria. Non la vittoria militare. Non l’umiliazione del nemico. Ma la vittoria del dialogo sulla pauradella cooperazione sull’ostilitàdella giustizia sulla vendetta.

Perché la vera pace non è mai il frutto di una resa. È un atto di intelligenza collettiva.
E l’Europa — se vuole essere all’altezza del suo nome — deve avere il coraggio di sognarla, progettarla, praticarla.

Ma forse, e qui l’amarezza si fa inevitabile, l’Europa non è più ciò che credevamo.
Forse è diventata solo una parola.
Una espressione geografica travestita da potenza morale.
Un nome evocato nei discorsi, ma assente nei fatti.
E allora la domanda più urgente, prima ancora che geopolitica, è profondamente spirituale:
siamo ancora in grado di immaginare l’Europa come soggetto di pace, o ne conserviamo solo l’eco?

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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