Spiaggia di Siculiana Marina (AG)
Nel caldo respiro dell’estate, sotto il sole che incendia ogni granello di sabbia e scompone il tempo in sudore e miraggi, la spiaggia si trasforma in un palcoscenico senza copione. Un luogo di esposizione e di verità elementare, dove i corpi parlano, i gesti urlano, e l’intimità si sbriciola davanti agli occhi degli altri. È il teatro popolare della contemporaneità, il luogo in cui, forse, Pier Paolo Pasolini avrebbe camminato con la sua cinepresa come un rabdomante del reale, cercando tra glutei tirati, chiacchiere spicciole e tuffi rituali la poesia perduta dell’italiano medio.
L’intellettuale da ombrellone, prima di tutto. Non manca mai. Indossa occhiali leggermente appannati, ha in mano un libro (rigorosamente spiegazzato), e lo sguardo assorto, ma vigile. Legge e osserva. A tratti sembra interrogare il mare come si fa con un oracolo stanco. Sono i filosofi del lettino, i lettori dell’ultimo Moravia o dei frammenti greci, che sfidano il rumore dei palloni e l’odore dei panini all’origano per restare ancora un po’ intellettuali anche in costume da bagno.
Accanto a loro, perfettamente sincroni con il sole e con l’ombra, troviamo i bagnanti rituali. Appartengono alla liturgia perfetta della balneazione. Stendono il telo con attenzione millimetrica, controllano la simmetria dell’ombrellone, dispongono la crema solare come una reliquia. Hanno orari precisi per ogni cosa: bagno alle 11, focaccia alle 13, sonnellino alle 14. Sono i contadini del turismo domestico, che hanno sostituito la zappa con il materassino gonfiabile, ma conservano nel cuore l’etica del gesto ripetuto.
Eppure, sopra ogni altra voce, si sente quella dei chiacchieroni da bagnasciuga. Veri parlatori seriali, trasportano conversazioni da una riva all’altra come se fossero interviste non richieste. Parole sul calcio, sulla politica, sulle disgrazie della suocera, sul parcheggio difficile. È qui che sopravvive la democrazia della parola. Un’oralità che Pasolini avrebbe raccolto come materia viva, come magma di significati sospesi, come carne dialettale ancora pulsante.
Ma in questa messa in scena del corpo sociale, non si può ignorare la comparsa teatrale e sensuale delle belle e dei fusti. I loro corpi sono scritture epidermiche: glutei scolpiti come marmi greci, bicipiti tirati allo spasimo, pettorali lucidi di oli solari che sembrano riflettere non solo il sole, ma anche l’ansia collettiva di apparire. Camminano lenti, consapevoli della loro forma. Non sono più persone: sono immagini. Sono la pubblicità di se stessi, il sogno di un’identità costruita muscolo dopo muscolo. Pasolini li avrebbe guardati con struggimento, non per condannarli, ma per domandarsi — come sempre — che fame nasconda quella bellezza gridata. Fame d’amore? Di riconoscimento? Di essere “scelti” da uno sguardo qualsiasi?
Ai margini di tutto questo movimento, ci sono gli osservatori silenziosi. Figure a metà tra flâneur e spettri, spesso con una penna, uno sguardo disilluso e uno scontrino usato come segnalibro. Non parlano, ma scrivono. Non agiscono, ma raccolgono. Sono i narratori non richiesti dell’estate, pronti a trasfigurare in parole anche la più semplice delle posture. Perché ogni gesto umano, anche il più banale, può diventare letteratura se chi guarda è capace di non voltarsi altrove.
E infine, arrivano i giovani scatenati, gli eroi passeggeri dell’estate. Sorridono forte, ballano sabbiosi, si tuffano con la sicurezza di chi non ha mai sentito la parola “fine”. Hanno vent’anni tatuati addosso come un passaporto per l’eternità. Sono l’adolescenza che non si è ancora spenta, il canto pop di una generazione che non cerca più rivoluzioni ma applausi digitali. Eppure, nella loro incoscienza, c’è qualcosa di sacro: quella libertà provvisoria che nemmeno il potere sa reprimere.
In questo caleidoscopio di carne e chiacchiere, la spiaggia diventa la scrittura pubblica di una stagione. Un documento vivo dove ogni tipo umano svela — senza paura — la propria natura fragile e potente. Come se il sole fosse una luce di verità, e la sabbia un’inchiostro pronto a fissare le storie di un’umanità che si racconta senza filtri. Con la schiettezza crudele e la poesia sincera che solo Pasolini avrebbe saputo cogliere.
E a sera, sulla battigia, una conversazione fra Pier Paolo Pasolini e Italo Nostromo
Due sagome. Una in camicia bianca, appena sgualcita dal vento. L’altra con sandali di cuoio e una bottiglia mezza piena di rosé nella borsa di tela. Il sole scende. La spiaggia si svuota. Resta solo la parola.
Sipario sul mare, tra la luce che muore e un bicchiere di rosé ancora mezzo pieno.
Carlo Di Stanislao