Nel cuore di un’estate internazionale segnata da tensioni geopolitiche crescenti, dalla crisi in Medio Oriente e da un’Europa sempre più divisa su come affrontare la questione israelo-palestinese, una voce che non può essere ignorata si è levata forte e chiara: quella del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano (foto Wikipedia).
Le sue dichiarazioni, arrivate durante un evento del Giubileo degli influencer — manifestazione che unisce simbolicamente la tradizione giubilare e la comunicazione digitale — hanno scosso il dibattito pubblico e politico italiano. Non si è trattato di una generica invocazione di pace, né di un appello spirituale rivolto a “tutte le parti in causa”: Parolin ha esplicitamente criticato la posizione del governo italiano, che considera “prematuro” il riconoscimento dello Stato di Palestina.
“Il riconoscimento dello Stato di Palestina? Noi l’abbiamo già fatto. ‘Da mo’, come dite voi. Per noi quella è la soluzione: il riconoscimento dei due Stati che vivano vicini, in autonomia e sicurezza”, ha dichiarato con una franchezza inusuale per una figura ecclesiastica abituata, almeno fino a qualche mese fa, alla prudenza e al riserbo. Ma i tempi, e gli equilibri, sono cambiati. Con l’ascesa al soglio pontificio di Papa Leone XIV, anche il ruolo della diplomazia vaticana si è trasformato: da garante silenzioso a voce profetica, pronta a disturbare le coscienze e sfidare i poteri.
La risposta di Parolin non si limita a una puntualizzazione dottrinale. È un atto politico, un’affermazione pubblica di divergenza nei confronti della linea scelta da Palazzo Chigi, che in queste settimane si è allineato a una posizione di cautela simile a quella di altri governi atlantici, ma in controtendenza rispetto al clima che si sta creando in varie capitali europee. La Francia di Emmanuel Macron ha già annunciato la sua apertura a un riconoscimento unilaterale, mentre Irlanda, Spagna e Norvegia hanno fatto passi concreti in questa direzione. L’Italia, invece, prende tempo. E per il Vaticano, questo temporeggiamento non è più giustificabile.
“Perché prematuro?”, ha chiesto il cardinale con tono più che interrogativo, provocatorio. La sua è una domanda che mette in crisi l'intero impianto della strategia italiana sulla questione. Il non voler riconoscere uno Stato che già esiste nelle intenzioni della comunità internazionale — e che la Santa Sede ha ufficialmente riconosciuto già nel 2015, sotto Papa Francesco — appare oggi, secondo Parolin, una posizione sempre meno sostenibile, tanto sul piano morale quanto su quello geopolitico.
Le dichiarazioni del porporato segnano un cambio di passo nella postura diplomatica della Chiesa, che non è più disposta a restare in silenzio di fronte all’evidente asimmetria del conflitto israelo-palestinese, né a tollerare il progressivo svuotamento del principio “due popoli, due Stati” da parte della comunità internazionale. Il Vaticano, nella sua visione, non prende posizione “contro Israele” — e le sue relazioni con lo Stato ebraico restano solide — ma ricorda che non esiste sicurezza senza giustizia, e che non esiste giustizia se un popolo continua a vivere sotto occupazione, privato di diritti, autonomia e riconoscimento internazionale.
Il contrasto con il governo Meloni diventa ancor più significativo se si guarda alla recente storia dei rapporti tra Vaticano e maggioranza politica italiana. Fino a pochi mesi fa, Parolin era considerato una figura di equilibrio, stimata da ambienti di centrodestra, che guardavano con rispetto al suo stile prudente e diplomatico. Alcuni lo vedevano persino come un possibile “papa papabile” nel conclave successivo. Ma con l’elezione di Papa Leone XIV, il cardinale ha assunto un nuovo protagonismo. Non più custode silenzioso dei rapporti internazionali della Chiesa, ma voce attiva e cosciente in uno scenario mondiale sempre più frammentato e cinico.
Questo nuovo atteggiamento si è già manifestato in altre occasioni. Dopo l’attacco israeliano alla Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, definito da Israele un errore operativo, Parolin aveva già espresso dubbi e richiesto chiarezza, rompendo un lungo silenzio vaticano sui crimini di guerra nei Territori occupati. Le sue parole di oggi si inseriscono in questo solco: un magistero diplomatico che non ha paura di disturbare gli equilibri consolidati, né di rimettere in discussione l’inerzia delle cancellerie occidentali.
E non è un caso che, proprio in questi giorni, anche Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, abbia sollevato critiche simili contro l’approccio del governo Meloni. La convergenza tra opposizione laica e diplomazia ecclesiale su un tema di alta sensibilità internazionale non è comune, ma nemmeno marginale: rivela un malessere trasversale di fronte a una politica estera che appare schiacciata sul presente e priva di visione strategica a lungo termine.
Il rischio, per l’Italia, non è solo quello di apparire timorosa, ma anche quello di perdere centralità in un contesto europeo che si sta progressivamente riallineando su posizioni più decise e coerenti con il diritto internazionale. In questo quadro, la voce del Vaticano torna ad avere un peso specifico non indifferente. Non più neutrale, ma lucidamente critica. Non più silenziosa, ma intensamente presente.
In fondo, la Chiesa non chiede nulla di rivoluzionario: chiede coerenza. Chiede che si dia attuazione concreta a ciò che da decenni è sulla carta — una soluzione a due Stati che garantisca sicurezza per Israele e dignità per i palestinesi. Riconoscere la Palestina significa uscire dall’ambiguità, restituire legittimità alla diplomazia e rimettere la giustizia al centro della pace.
Carlo Di Stanislao