«Ozzy è come una fenice ubriaca: ogni volta che pensi sia finita, risorge tra fiamme, urla e risate.» Dave Grohl
Mio figlio mi ha chiesto di scrivere su Ozzy Osbourne. E lo accontento volentieri. Non solo perché ha ragione, ma perché Ozzy è uno di quei personaggi che non si possono ignorare. È entrato nella storia non per caso, e non per un colpo di fortuna. Ci è entrato a suon di dischi, di urla, di eccessi, ma soprattutto con una voce che sembrava arrivare da un altro mondo. E che, nonostante tutto, non ha mai smesso di parlare.
22 luglio 2025, Ozzy Osbourne è morto all’età di 76 anni. La notizia è arrivata come un tuono che taglia il silenzio. Anche se da tempo combatteva con problemi di salute, e sapevamo che quel momento poteva arrivare, in fondo nessuno era pronto. Perché come si dice addio a qualcuno che sembrava invincibile nel suo essere fragile?
Le origini: un ragazzo di Birmingham con un sogno oscuro
John Michael Osbourne nasce il 3 dicembre 1948 ad Aston, un quartiere operaio di Birmingham. Cresce in una casa affollata, con sei fratelli, un padre operaio e una madre che lavora in fabbrica. La scuola lo emargina, la dislessia lo isola, e il futuro sembra già scritto: un’esistenza dura, grigia, come il cielo della sua città.
Eppure dentro Ozzy si muove qualcos’altro. Qualcosa che non accetta il destino così com’è. È una fame. È una febbre. È una vocazione che ancora non ha parole, ma già urla.
Nel 1969 forma i Black Sabbath, insieme a Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward. L’anno dopo esce Black Sabbath, il disco. E lì il mondo capisce che qualcosa è cambiato. Quel suono non esisteva prima. Quella voce nemmeno. Era nato qualcosa che non cercava di piacere, ma di dire la verità — anche se era brutta, cupa, disturbante. Nasceva l’heavy metal.
La nascita di una voce unica
La voce di Ozzy non è una voce da conservatorio. È un grido che viene da una cantina dell’anima. È alta, metallica, spirituale e animalesca insieme. Quando canta War pigs, Iron man o Children of the grave, non sta eseguendo una parte. Sta rivelando una parte sepolta in ognuno di noi.
La sua voce è come uno specchio rotto: non mostra le cose come sono, ma come le sentiamo quando smettiamo di mentirci.
I Sabbath inventano un nuovo linguaggio sonoro: la distorsione diventa linguaggio esistenziale, l’oscurità non è solo atmosfera — è contenuto. Ozzy è il medium perfetto di questo mondo. Ma non ne esce indenne.
La discesa e la resurrezione
Gli anni settanta sono devastanti. Tra alcol, cocaina, acido, psicofarmaci, Ozzy perde tutto — tranne il suo richiamo. Nel 1979 i Sabbath lo cacciano. È finita. Ma proprio quando sembra finire, Sharon Arden lo prende per mano. Gli dà una seconda possibilità. E lui la prende con tutto sé stesso.
Nel 1980 esce Blizzard of Ozz. È un trionfo. Crazy train diventa la nuova sigla di chi ha perso la testa, ma non l’anima. Mr. Crowley è un dialogo con l’occulto, ma anche con la propria ombra interiore.
Poi arriva Randy Rhoads, chitarrista giovane, brillante, destinato a breve ma fulminante gloria. Il sodalizio tra loro è breve: Randy muore in un incidente aereo nel 1982. Ozzy è devastato, ma continua. Perché non può fare altro. Perché ormai lui e la musica sono la stessa cosa.
Una maschera diventata volto
Con The Osbournes su Mtv nel 2002, il mondo scopre l’uomo dietro il mito: impacciato, sboccato, tenero, disorientato. Ozzy diventa una figura pop, un padre bizzarro, un nonno impresentabile e dolce. La gente lo ama ancora di più. Perché finalmente vede l’essere umano dentro l’icona.
Negli anni successivi, la salute lo colpisce duramente. Fratture, infezioni, Parkinson. Eppure, anche da lì, arrivano due dischi straordinari: Ordinary man (2020) e Patient number 9 (2022). Ozzy canta la fragilità, la vecchiaia, la morte che si avvicina. E lo fa con onestà spiazzante. È come se dicesse: «Sì, sono stato il principe delle tenebre. Ma sono anche solo un uomo che ha paura. Come te.»
Il diavolo, secondo Ozzy (e secondo Gurdjieff)
Ozzy è stato spesso associato al diavolo. Lo chiamavano così: il principe delle tenebre. A volte lo incoraggiava lui stesso, tra pipistrelli, croci rovesciate, citazioni esoteriche. Ma in realtà, il “diavolo” di Ozzy era qualcosa di più profondo.
Secondo G. I. Gurdjieff, il grande filosofo mistico armeno, il diavolo non è una figura esterna, ma una parte interiore dell’essere umano. Nel suo libro Belzebù a suo nipote, il diavolo — Belzebù — non è un semplice antagonista di Dio. È un osservatore, un ex ribelle, un’entità consapevole del ruolo dell’errore nella crescita. È ciò che mette l’uomo alla prova, ma anche ciò che lo costringe a scegliere se restare un dormiente o diventare sveglio.
Ozzy ha portato tutto questo sul palco e nei dischi. Ha incarnato l’ombra materiale, come direbbe Jung, quella parte di noi che vogliamo nascondere. Ma lui non l’ha nascosta. L’ha messa sotto i riflettori, con gli occhi spiritati, i capelli da strega e il microfono come scettro. Non per glorificare il male — ma per renderlo visibile, e quindi affrontabile.
Perché, come insegna la vera alchimia spirituale, solo attraversando l’ombra si può far emergere la luce. E Ozzy ha fatto proprio questo: ha usato il caos, il dolore, l’eccesso come carburante. Ha fatto brillare l’inferno per mostrarci quanto vogliamo il cielo.
Oggi, il silenzio
Oggi Ozzy Osbourne ha lasciato questo mondo. Ma la sua voce, le sue note, le sue cadute e risalite continuano a vivere dentro chiunque abbia sentito almeno una volta il bisogno di urlare senza vergogna.
Ozzy ci ha insegnato che anche se nasci storto, anche se cadi mille volte, puoi trasformare ogni ferita in un inno. E che il buio, se lo attraversi con coraggio, non ti inghiotte — ti trasforma.
E ora?
Ora che se n’è andato, Ozzy entra nel regno degli archetipi. Non è più solo un uomo. È una leggenda, un simbolo. Un testimone del fatto che dentro ognuno di noi c’è un Belzebù dormiente, che può distruggerci… oppure condurci alla nostra luce più autentica.
Basta avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Magari con una birra in mano. Magari con Crazy train a tutto volume.
E allora sì, figlio mio, oggi ti ho accontentato. Ma più ancora, ho ringraziato. Perché Ozzy Osbourne non era solo un cantante. Era una prova iniziatica. Una voce che non tacerà mai. Nemmeno ora.
Carlo Di Stanislao
Foto da Wikipedia