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“La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto. Perché se a qualcuno piaci, sai che è per qualcos’altro.” Charles Bukowski
La bruttezza come condanna invisibile in un paese che si crede ancora bello
Nel Paese che si vanta di avere il 70% del patrimonio artistico mondiale, la bruttezza è ancora un’eresia. Ma non quella delle periferie spoglie, delle piazze asfaltate, dei centri commerciali senz’anima. Quella si tollera, anzi si costruisce con rassegnazione.
La bruttezza intollerabile, invece, è quella umana. Corporea. Facciale. Quella che non si può ritoccare con un filtro, che non si cancella con un’app, che non si mimetizza tra i look curati e i sorrisi da selfie.
L’Italia non è un paese per brutti perché il brutto non ha diritto d’esistenza pubblica. Il brutto deve farsi discreto, anzi invisibile. Deve vivere a bassa voce. Deve chiedere permesso per desiderare.
E se osa farlo - se guarda, se parla, se insiste - viene bollato come creepy, invadente, inquietante. Quando non direttamente come stalker.
Quando la percezione dell’aspetto diventa sentenza morale
Un episodio, emblematico per la sua assurda semplicità, racconta meglio di mille saggi questa distorsione. Un ragazzo cieco entra in palestra. Sta cercando di ambientarsi, di muoversi nello spazio, di capire dove si trova. Ma per farlo deve “guardare”, o meglio: puntare il volto in una direzione.
Una ragazza si sente osservata. Si sente a disagio. Interpreta quella presenza come invadente, disturbante. Parte una segnalazione. Poco dopo arriva l’allontanamento, poi l’espulsione. Nessuno chiede, nessuno ascolta.
“Non so dove sto guardando. Sto solo cercando di orientarmi…”
Ma ormai è tardi. Il giudizio è già emesso.
La sua bruttezza ha parlato prima di lui.
Se fosse stato bello, forse, si sarebbe pensato a un approccio maldestro. A un tentativo buffo.
Ma lui no. Lui era “strano”, “fuori luogo”, e per questo diventato colpevole.
Bruttezza come identità da respingere, bellezza come passaporto sociale
Viviamo in un’epoca in cui la bellezza è diventata una forma di credito sociale.
Lo stesso comportamento può essere letto in modo diametralmente opposto a seconda di chi lo compie. Uno sguardo, un sorriso, una battuta: se arrivano da una persona attraente, vengono accolti come charme, come carisma. Se invece provengono da qualcuno che non rispecchia gli standard estetici dominanti, diventano automaticamente minaccia.
Il brutto non ha margini d’errore.
Ogni suo gesto è fuori scala.
Deve dosare la voce, evitare contatti, non esporsi. Perché qualsiasi cosa faccia può essere fraintesa, e spesso lo è. Non ha il beneficio del dubbio.
Il brutto, nel teatro sociale, è il personaggio di cui si sospetta sempre qualcosa. Anche se non fa nulla.
Quando la società decide chi può esistere davvero
Ma chi ha deciso cos’è brutto? Chi ha stabilito che l’irregolarità debba essere letta come una mancanza?
La risposta è collettiva, stratificata, pericolosamente introiettata. Viviamo immersi in una cultura che confonde l’estetica con l’etica, che assegna valore morale a un viso, un corpo, una voce.
E questo avviene ovunque: nelle relazioni, nei colloqui di lavoro, nei social network, nella scuola, perfino nei gesti quotidiani.
Chi è bello può permettersi di essere distratto, insicuro, goffo.
Chi è brutto deve compensare sempre.
Con l’intelligenza, con la simpatia, con l’umiltà. Ma non basta mai.
La bruttezza come resistenza, ironia, orgoglio di chi non si conforma
Eppure, ci sono luoghi dove la bruttezza non è un limite, ma un’identità da rivendicare.
A Piobbico, un piccolo borgo marchigiano, esiste dal 1879 il “Club dei Brutti”: un’associazione che ha fatto della diversità estetica una bandiera, un’arma gentile contro l’omologazione.
Ogni anno organizzano il “Festival Mondiale della Bruttezza”. Non per mettersi in mostra, ma per smontare l’assurdo potere che la bellezza ha assunto.
Per dire che si può vivere - bene - anche senza piacere a tutti.
Che si può amare, costruire, ridere, contribuire… anche con un naso sbagliato, una cicatrice, un corpo fuori misura.
In un’epoca in cui essere brutti è diventato un rischio sociale, dirsi brutti è un atto rivoluzionario.
Dall’architettura all’anima: la bruttezza come metafora di un paese che si dimentica di progettare la bellezza vera
C’è un’altra bruttezza, meno evidente ma altrettanto corrosiva: quella dei luoghi. Le periferie lasciate al degrado, le piazze svuotate di senso, le scuole che somigliano a prigioni.
Questa bruttezza non ci offende, perché l’abbiamo normalizzata. È la bruttezza del potere: quella che non si vede nei selfie, ma che ci accompagna ogni giorno.
Il paradosso è che accettiamo l’orrore del cemento senza anima, ma non tolleriamo il volto di chi non rientra nei canoni.
Siamo diventati ciechi di fronte all’abbandono strutturale, ma ipersensibili alla dissonanza estetica umana.
In questo senso, il brutto è il vero specchio del Paese.
E non ci piace guardarci.
E se fossimo noi il vero brutto?
Dostoevskij scriveva:
“Il mondo sarà salvato dalla bellezza.”
Ma quale bellezza? Quella che esclude o quella che abbraccia? Quella che impone o quella che accoglie?
Forse il brutto non è chi ha un difetto.
Il vero brutto è chi ne ha paura.
Abbiamo imparato a giudicare in un secondo, a scremare i volti come se fossero merci. Ma guardare non è vedere. E vedere non è capire.
Abbiamo bisogno di disimparare a giudicare dalle apparenze.
Di imparare a scegliere con l’anima, non con gli occhi.
E qui entra la voce di Umberto Eco, che nel suo Storia della bruttezza ribalta la narrazione classica:
“Il brutto è una categoria dell’estetica, ma è anche una categoria del sociale e del religioso. Ciò che riteniamo brutto non è solo ciò che ci ripugna, ma spesso ciò che ci minaccia.”
Eco ci ricorda che la bruttezza non è solo mancanza di armonia, ma rivelazione di ciò che la società rifiuta di accettare. È specchio di tabù, paure, insicurezze collettive.
Il brutto disturba perché interroga, perché non si adatta, perché ricorda a tutti che l’ideale è un’invenzione.
Epilogo
Viviamo in un tempo dove tutto è immagine, ma l’immagine mente.
Ci circonda, ci plasma, ci seduce, ma non ci conosce.
Viviamo nella società del “prima impressione”, dove chi non colpisce subito, scompare.
Un mondo dove la bellezza è passaporto e la bruttezza diventa clandestinità emotiva.
Ma cosa succede quando quella bellezza sfiorisce? Quando il corpo cambia, quando la pelle cede, quando i riflettori si spengono?
Chi resta, accanto a noi, quando non incantiamo più nessuno?
Chi ci guarda, allora, senza giudicarci?
E chi siamo noi, senza quel filtro che ci protegge dal rifiuto?
Il giorno in cui sapremo rispondere a queste domande sarà il giorno in cui questo Paese — e forse anche noi — saremo diventati davvero adulti.
Non più perfetti, ma più giusti.
Non più fotogenici, ma più capaci di amare.
Non più ossessionati dal piacere, ma finalmente disposti a capire.
Perché in fondo, la bellezza ci colpisce.
Ma è la verità che ci resta.
E fino a quando non sapremo vedere la bellezza anche dove non brilla, continueremo a costruire un mondo esteticamente perfetto e affettivamente deserto.
Un mondo dove non c’è spazio per chi non incanta.
E quindi, per molti di noi,
un mondo dove non c’è davvero spazio per vivere.
Carlo Di Stanislao