Linguaggio dei dazi, la grammatica della crisi: l’Italia di fronte alla nuova America di Trump

 


Ogni parola ha le sue ferite. Bisogna scegliere bene quali ferite portare.” Antonella Anedda

Per Donald Trump il dazio non è una misura tecnica, ma un principio ideologico. Un atto di forza, un gesto muscolare che trasforma il commercio globale in un’arena di scontri. Il suo piano – ora che ha riconquistato la presidenza – è chiaro: una tariffa generalizzata del 10% su tutte le importazioni, con aumenti mirati fino al 60% su determinati beni europei.

L’Italia, in questa logica, è un bersaglio vulnerabile.

Nel 2023 l’Italia ha esportato beni verso gli Stati Uniti per oltre 65 miliardi di euro, rendendo Washington il secondo partner commerciale extra-UE. I settori più esposti sono proprio quelli che rappresentano l’identità economica e culturale del Paese:

  • Agroalimentare (3,6 miliardi): a rischio formaggi DOP, olio d’oliva, vino, pasta.
  • Moda, tessile, pelletteria (oltre 13 miliardi): simboli del Made in Italy.
  • Macchinari, meccanica e automotive (oltre 20 miliardi): il cuore pulsante dell’ingegneria industriale italiana.

Dazi generalizzati del 10-20% potrebbero costare all’Italia tra i 5 e i 7 miliardi di euro l’anno.
Ma il dato più inquietante è quello occupazionale:
una crisi simile, distribuita su filiere altamente labour-intensive, potrebbe significare la perdita di quasi 200.000 posti di lavoro.
Operai, artigiani, tecnici specializzati, export manager: vite vere, economia reale.

Eppure, da Roma non è arrivata isteria. Ma nemmeno sottomissione.

Per una volta, Giorgia Meloni ci piace. Ha risposto a Trump con una frase semplice, ma non banale: “Non vogliamo una guerra commerciale, ma l’Italia non si farà imporre nulla.” È diplomazia, sì, ma con una postura diversa: una fermezza che non grida, ma tiene il punto. E in tempi di teatrino, è raro vedere qualcuno stare nella scena con questa sobrietà.

La parola, appunto. È lì che si gioca tutto. Nella sua integrità. Nel suo rischio. E allora, in questo scenario di linguaggi tesi e calcolati, entra – apparentemente fuori posto – Ivano Fermini. Poeta dimenticato, marginale, defilato. Eppure vivo. Più vivo di molti.

Fermini non ha fatto della parola un mestiere, ma una scossa. Non la usa, la espone. Pubblica La scorciatoia nel 1970 e poi si ritrae. Riappare nel 1985 con Bianco allontanato, e nel 1991 con Nati incendio. Libri rari, scomparsi, introvabili. Eppure incandescenti. Scrive come chi getta ciottoli contro il cranio della realtà, per usare l’immagine di Milo De Angelis, il suo più attento testimone.

I poeti come Fermini ci sono piaciuti sempre. Perché non rassicurano. Non capitalizzano. Non piacciono, eppure restano. Hanno solo un’urgenza: dire ciò che non si può dire, nel modo in cui nessuno vuole ascoltare. E in questo stanno dalla parte più scomoda, ma anche più vera, della cultura.

Ecco perché parlare oggi di Trump e di Fermini non è un paradosso.
È un modo per interrogare il senso profondo delle parole che scegliamo:
quelle del potere, e quelle della verità.
Quelle che difendono un confine economico, e quelle che provano a dire il margine umano.

L’Italia è oggi nel mezzo. Tra chi alza dazi e chi alza muri, e chi ancora – come Meloni in questo caso – prova a costruire un varco. Tra chi svende parole e chi le difende come ultimo bene non negoziabile.

Fermini non ha mai avuto potere. Ma ci ha insegnato a non tradire la voce.
E oggi, in mezzo a una nuova tempesta globale, ci ricorda che solo una parola esatta può ancora salvarci: purché abbia il coraggio di perdere. E restare intera.

Carlo Di Stanislao

Foto da Wikipedia

Fattitaliani

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