La filosofia non è un romanzo

 


«La filosofia non serve a riempire il tempo, ma a salvare l’anima.» Simone Weil

Nel panorama editoriale contemporaneo, ogni stagione porta con sé un nuovo genere letterario, spesso salutato come innovativo, democratico, capace di “avvicinare il pubblico”. Ma più che rispondere a una domanda culturale reale, queste etichette sembrano nate per esigenze di marketing: rivestire vecchi contenuti con abiti nuovi, renderli vendibili, ammiccanti, appetibili per lettori frettolosi. Uno degli esempi più clamorosi di questo meccanismo è la cosiddetta philofiction: un ibrido narrativo che unisce finzione romanzesca e filosofia, trasformando il pensiero in trama, il concetto in personaggio, la riflessione in monologo teatrale.

Il principio è semplice e perfettamente in linea con l’epoca dello storytelling: prendere una materia difficile, a tratti inaccessibile – come la filosofia – e raccontarla come fosse un romanzo. Non più sistema, argomentazione, logica, ma emozione, biografia, drammatizzazione. Il pensiero si muove in scena, ha un tono, uno stile, un ritmo da fiction. Nietzsche non viene spiegato, ma "rappresentato": è un giovane professore inquieto che cammina tra i boschi con lo sguardo accigliato; Arendt non discute il totalitarismo, ma guarda fuori dalla finestra, pensosa; Platone parla come un protagonista di un film d’autore francese. Il lettore non è più chiamato a pensare, ma a sentire. Non più fatica intellettuale, ma identificazione emotiva. In apparenza un progresso. In realtà, un abisso.

La philofiction è il trionfo del racconto sul ragionamento, del pathos sul logos. E a proporla sono spesso filosofi di professione, accademici con curriculum brillanti, cattedre internazionali, una biografia che un tempo li avrebbe condannati all’oblio delle biblioteche, e che oggi – con l’adeguata narrazione – li trasforma in celebrità culturali. L’importante è che sappiano parlare bene, apparire bene, semplificare senza sembrare banali. La scrittura? Quella la sistemano gli editor. La profondità? Meglio non esagerare, si rischia di perdere lettori. Ciò che conta è il ritmo, la voce, l’aura. Più che pensatori, performer.

Eppure, prima che la philofiction diventasse strategia editoriale, c’è stato un precursore, e si chiamava Luciano De Crescenzo.
Ingegnere, narratore, showman, divulgatore ante litteram, De Crescenzo è stato il primo a mettere la toga del filosofo sulle spalle del comico napoletano. Con Storia della filosofia greca portò Eraclito, Socrate e Platone nei salotti italiani degli anni Ottanta, con uno stile semplice, ironico, accessibile. La filosofia non era più una disciplina da accademia, ma una chiacchiera da bar, una napoletanata colta. Il suo merito? Aver fatto conoscere a milioni di italiani parole e concetti altrimenti lontani. Il suo limite? Averli ridotti a aneddoti, a battute, a morali da cabaret. In De Crescenzo la filosofia è racconto orale, teatrale, affabulazione. Una forma di filosofia popolare, che ha aperto la strada – forse inconsapevolmente – a tutte le versioni successive e più patinate del filosofo-narratore.

Senza De Crescenzo, probabilmente, non ci sarebbe stato Galimberti. E senza quel tono bonario e affettuoso del filosofo che ti parla come lo zio saggio, non ci sarebbe stato spazio per gli Zecchi, i Vattimo in tournée, i narratori dell’io filosofico che vendono metafisica con lo stesso packaging della narrativa sentimentale.

Umberto Galimberti è infatti l’esempio paradigmatico della philofiction 2.0. Filosofo serio, capace, colto, ma anche abilissimo nel riconoscere – e poi cavalcare – lo spirito del tempo. A partire dagli anni Novanta, ha costruito un’immagine di intellettuale carismatico, accessibile, profondo quanto basta. I suoi articoli diventano rubriche, le rubriche aforismi, gli aforismi status condivisibili. Galimberti ha saputo colonizzare gli spazi della comunicazione di massa, adattando il pensiero a una forma “pillolare”: piccoli concentrati di esistenzialismo, di domande senza risposta, di verità senza dimostrazione. Il suo lettore ideale non è chi cerca una posizione, ma chi cerca conforto nella complessità. Il rischio? Trasformare la filosofia in una forma alta di auto-aiuto. Non più lotta con i concetti, ma balsamo per il turbamento.

Ancora più emblematico è il caso di Stefano Zecchi, professore di estetica, critico, divulgatore, e infine romanziere. Dai testi accademici sulle categorie del bello, Zecchi è passato – con sorprendente fluidità – a romanzi dai titoli ammiccanti: EstasiSensualitàFedeltà. Romanzi costruiti per catturare un pubblico ampio, anche (e soprattutto) femminile, con trame che uniscono riflessione estetica, tormento amoroso, introspezione pseudo-filosofica. Zecchi non insegna, seduce. I suoi personaggi riflettono sull’assoluto, ma nel frattempo si perdono in storie di passione, di bellezza, di gelosia. La filosofia qui è decoro, una cornice nobile a una narrativa che in fondo ha ben poco di filosofico. Un’operazione riuscitissima dal punto di vista editoriale, ma che segna un punto di non ritorno: la resa del pensiero alla retorica del piacere.

Il danno è doppio. Da un lato si banalizza la filosofia, riducendola a un contenuto da consumo rapido. Dall’altro si alimenta l’illusione che il pensiero possa essere semplice, emozionante, immediato. Ma la filosofia autentica – quella che ci è stata consegnata da Socrate, da Kant, da Simone Weil – non consola, non semplifica, non intrattiene. Scomoda. Interroga. Mette in crisi. Chiede tempo, solitudine, rigore. E soprattutto, chiede di uscire dal racconto per entrare nel reale.

La Germania ha trovato il termine giusto per questi prodotti editoriali: Friseurliteratur, “letteratura da parrucchieri”. Libri che si sfogliano distrattamente mentre si aspetta il proprio turno dal coiffeur, letture da intrattenimento travestite da cultura. È una definizione dura, ma tristemente accurata. Perché in fondo è proprio questo che rischia di diventare la filosofia ai tempi della philofictionuno sfondo elegante, un profumo d’intelligenza, un simulacro di pensiero.

Ma se la filosofia si fa fiction, se il pensiero diventa narrazione, chi difenderà la verità dalla sua caricatura? Chi ci aiuterà a distinguere il discorso serio da quello scenico? Forse è il momento di riscoprire il silenzio, l’oscurità, la difficoltà. Di dire che no, la filosofia non è per tutti, non deve esserlo. Non perché sia elitaria, ma perché è esigente. Esige abbandono dell’ego, disponibilità al dubbio, rinuncia al comfort.

E quindi:
No, la philofiction no.
Non per snobismo. Ma per amore del pensiero vero. Quello che non si traveste, non si trucca, non si mette in posa.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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