"Il commercio è una delle forze più potenti per la pace che il mondo abbia mai conosciuto." Dwight D. Eisenhower
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato con enfasi la conclusione di un accordo commerciale che ha definito “storico” con il Giappone. Si tratta, secondo la Casa Bianca, della più ampia e vantaggiosa intesa mai raggiunta tra Washington e Tokyo, destinata a modificare in modo significativo gli equilibri nei rapporti economici tra le due potenze. Al centro dell’accordo, una sostanziale riduzione delle tariffe doganali statunitensi sulle automobili giapponesi, che passeranno dal 25% a un dazio reciproco del 15%.
In un messaggio affidato alla sua piattaforma Truth Social, Trump ha celebrato l'intesa come una vittoria per i lavoratori americani. Ha dichiarato che, grazie a questo nuovo quadro di regole, centinaia di migliaia di posti di lavoro verranno creati sul suolo statunitense, alimentati da investimenti giapponesi per un valore stimato di 550 miliardi di dollari. Pur in assenza di dettagli tecnici e dati verificabili, il presidente ha assicurato che il 90% dei benefici dell’accordo sarà appannaggio degli Stati Uniti. Una narrazione, questa, perfettamente in linea con la retorica sovranista e neo-protezionista che da anni caratterizza il ritorno sulla scena dell’ex tycoon.
Da Tokyo, il primo ministro Shigeru Ishiba ha adottato toni più sobri. Ha accolto con favore l’intesa, definendola “la più significativa riduzione di tariffe tra Paesi con un surplus commerciale verso gli USA”, ma ha voluto precisare che il Giappone non ha fatto concessioni sul proprio comparto agricolo, e che non vi sarà alcuna riduzione tariffaria in senso inverso. Ishiba ha descritto l’accordo come “bilanciato” e come il frutto di una difesa riuscita degli interessi strategici giapponesi, mantenendo tuttavia una cautela che riflette le incertezze ancora presenti sull'applicazione dell’intesa.
Va sottolineato che l’accordo giunge in un momento particolarmente delicato per il premier nipponico, che ha da poco subito una battuta d’arresto politica con la perdita della maggioranza nella Camera alta. Il successo diplomatico con Washington potrebbe dunque rappresentare per Ishiba un’occasione per rilanciare la sua leadership sul piano interno e rafforzare la posizione del Giappone nei negoziati internazionali.
Oltre al Giappone, anche le Filippine hanno siglato un’intesa con Washington. Gli Stati Uniti hanno infatti annunciato che le merci provenienti da Manila saranno soggette a dazi del 19%, in calo rispetto al precedente 20%, mentre le esportazioni statunitensi verso le Filippine non pagheranno alcuna tariffa. L’annuncio è arrivato dopo l’incontro tra Trump e il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr., confermando l’intenzione americana di stringere accordi bilaterali mirati con Paesi chiave del Pacifico, bypassando meccanismi multilaterali e indebolendo ulteriormente il ruolo delle istituzioni globali.
Nel frattempo, in Europa, il silenzio è assordante. Da Tokyo, dove si trovava per ricevere una laurea honoris causa, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha ribadito l’importanza della cooperazione multilaterale e ha richiamato l’attenzione sull’87% degli scambi globali che coinvolgono attori non statunitensi. Ha citato l’impegno dell’UE nel rafforzare i rapporti commerciali con India, Corea del Sud, Nuova Zelanda, America Latina. Ma mentre l’Unione produce enunciazioni di principio, gli Stati Uniti siglano intese vincolanti e mutano gli assetti globali. I negoziati Usa-Ue restano bloccati, e a Bruxelles si continua a temporeggiare: le contromisure europee sono congelate almeno fino ad agosto, e il rischio di una guerra commerciale transatlantica non è ancora del tutto scongiurato.
La divergenza strategica è lampante. Trump tratta da solo, con metodo brutale ma efficace, mentre l’Europa appare sempre più marginale, incapace di fare sintesi tra interessi divergenti dei propri Stati membri. E all’interno dell’UE, le divisioni crescono: Parigi chiede una linea più dura, Berlino vuole mediazione, Roma si limita ad assistere. Il prossimo incontro tra i ministri economici di Francia e Italia sarà forse l’occasione per ridisegnare una linea comune, ma il tempo stringe.
Ed è qui che nasce la riflessione più amara.
L’Europa è presente, ma irrilevante. Occupa le stanze, ma non incide. Ha voce, ma non autorevolezza. A dispetto del suo peso economico, delle sue infrastrutture industriali, delle sue capacità scientifiche, l’UE sembra oggi più che mai un corpo senza volontà politica, paralizzato da veti incrociati e lentezze procedurali. Le crisi vengono subite, raramente gestite. E i cambiamenti globali – climatici, tecnologici, commerciali – corrono molto più veloci delle sue risposte.
L’Italia, in questo scenario, appare ancora più fuori fuoco. Un Paese affaticato, fragile demograficamente, in declino industriale, con un debito pubblico cronico e una macchina istituzionale incapace di riformarsi. Sul piano diplomatico, non guida più nulla: né nel Mediterraneo, né nei Balcani, né tantomeno in Europa. Partecipa, osserva, reagisce, ma difficilmente anticipa o influenza. Il rischio vero è che la marginalità italiana diventi strutturale, e che le nuove grandi alleanze globali si costruiscano altrove, senza tener conto dei nostri interessi.
Forse non è esagerato dire che l’Europa è una potenza “corrente” ma già fuori dalla Storia. Come una macchina in moto senza pilota. E se non si trova il coraggio – e la visione – per risvegliarsi, la Storia andrà avanti comunque. Solo che la scriveranno altri.
Carlo Di Stanislao