I fantasmi del piombo e la memoria senile

 


«La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé.» Oscar Wilde

C’è un momento nella vita di un Paese – soprattutto se invecchiato e stanco – in cui la Storia smette di essere ricerca e si trasforma in autobiografia. Gli anni di piombo, quel convulso e tragico decennio tra fine anni Sessanta e primi Ottanta, tornano oggi a galla non per volontà di storici o per meriti di approfondimento collettivo, ma per un riflesso senile di chi allora visse e oggi, forse per bilancio o per inquietudine, riapre i cassetti del passato.

Mi riferisco all’articolo di Marcello Veneziani, pubblicato su Panorama, n. 31 del 25 luglio 2025, intitolato “Gli anni di piombo rivisti in età senile”, dove l’autore osserva con tono disincantato e amaro la recente polemica tra Luciano Violante e Adriano Sofri sull’omicidio Calabresi. Due ultraottantenni, due protagonisti di stagioni ideologiche contrapposte, che si sfidano oggi non più nelle piazze o nelle aule del potere, ma nel terreno fragile della memoria e della testimonianza personale.

Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, afferma di aver avuto certezza della colpevolezza di Sofri nel delitto Calabresi, senza però rivelarne la fonte. Sofri, ex leader di Lotta Continua e intellettuale molto presente nel dibattito pubblico, risponde rigettando l’accusa e sfidando l’accusatore a dire tutto, a parlare chiaro.

E qui emerge il cuore dell’analisi di Veneziani: la sensazione di vivere in una “casa di riposo diffusa”, dove i reduci di un’altra epoca tornano a interrogarsi sul passato più per un bisogno personale di giustificazione che per una reale utilità collettiva. I tribunali si sono già pronunciati. Le sentenze, giuste o sbagliate, sono state eseguite. La giustizia ha compiuto il suo corso. Ma la memoria no: quella continua a vibrare, a bruciare.

In questa rievocazione si staglia la figura tragica e dignitosa di Luigi Calabresi (foto da poliziadistato.it), commissario ucciso nel 1972 in un clima di feroce odio ideologico. Veneziani lo ricorda con rispetto: uomo di fede, di famiglia, al servizio dello Stato, diventato bersaglio di un’intera cultura intellettuale radicale.

Intanto l’Italia, oggi, è abitata da anziani che furono protagonisti di quegli anni e che sembrano ancora affamati di giudizi ultimi, di verità morali più che storiche. Il paradosso è che queste memorie restano ormai un fatto privato, archeologico: le giovani generazioni non conoscono più i nomi, i partiti, i codici di quel tempo. E forse nemmeno li vogliono conoscere.

Ma proprio a causa di questo irrisolto – di questa Storia mai veramente affrontata, mai pienamente superata – il nostro presente resta fragile e il nostro futuro minacciato. Il passato non ci ha insegnato a chiudere i conti, né a voltare pagina con consapevolezza. Le ferite mal cicatrizzate si riaprono alla prima tensione, e un Paese che non sa risolversi nel profondo non può guardare avanti con fiducia.

E forse è anche per questo che sarebbe opportuno che noi, cariatidi settantenni – e mi ci metto dentro senza pudore – ci facessimo finalmente da parte. Abbiamo parlato abbastanza, ricordato troppo e capito troppo poco. Ora serve silenzio, ascolto e soprattutto rinnovamento. Aria nuova. Ci vuole aria nuova.
Lasciamo spazio a chi viene dopo. Forse loro potranno costruire davvero qualcosa che non sia solo una riedizione sbiadita delle nostre antiche illusioni e dei nostri vecchi rancori.

Come scrive Veneziani nella chiusa del suo articolo: «La guerra civile è finita, andate in pace.»
Ma la pace, prima di tutto, ha bisogno di nuove voci e di nuove strade.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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