Harry, Diana 2.0 e la pace col papà: opera umanitaria o sceneggiatura da Emmy?

 


“Il più grande trionfo dell’ironia è prendere se stessi troppo sul serio.” – Oscar Wilde

C’è una sottile linea rossa che unisce il dramma, la dinastia e la diplomazia. Si chiama Casa Windsor.

Non è una famiglia. Non nel senso in cui lo sono tutte le altre. È un’entità, un’icona, un involucro di emozioni congelate e cerimonie coreografate. È un format che dura da oltre un secolo e si reinventa senza mai cambiare davvero. La dinastia Windsor è l’unico reality show senza copione, ma con rigide regole tramandate per sangue e per silenzi.

In questo teatrino inamidato, ogni gesto è calcolato, ogni espressione deve stare nel protocollo, ogni crisi viene elaborata non al pranzo di famiglia ma nei corridoi grigi degli uffici stampa. E quando qualcuno - tipo Harry - decide di agire “di pancia”, il sistema entra in allarme come se Buckingham Palace fosse sotto attacco alieno.

Harry: il principe che volle farsi sceneggiatore

Cresciuto all’ombra di una madre troppo libera per stare dentro la gabbia d’oro, Harry ha assorbito, fin da piccolo, un misto di tenerezza popolare e tragedia familiare. E, col tempo, ha deciso che no, non avrebbe fatto finta che tutto andasse bene. Non avrebbe sorriso, stretto mani e tagliato nastri senza fare domande.

Così ha scelto la fuga. E nella fuga ha trovato una nuova lingua: quella delle interviste-confessione, dei documentari a cuore aperto, dei libri-memoir da bestseller. Ha detto tutto, con dettagli da terapia di gruppo e frasi che hanno fatto inorridire l’ufficio del cerimoniale.

Ma se la scelta di Harry è sembrata a molti una vendetta, a ben vedere è un tentativo - forse goffo, forse sincero - di riscrivere la propria storia. Non quella della monarchia. La sua. Da “il secondo figlio” a “il protagonista della sua stessa vita”.

L’operazione Diana: Angola edition

Il viaggio recente in Angola è l’ultimo atto di questa narrazione. Lì dove Diana camminò nel 1997 tra le mine antiuomo, Harry ha ripercorso lo stesso tragitto, quasi scena per scena. Non è solo un tributo. È una dichiarazione d’identità. Sta dicendo: “Se devo somigliare a qualcuno della mia famiglia, allora sarà lei. Non mio padre. Non mio fratello. Non la monarchia, ma mia madre.”

Le foto sono emblematiche: il caschetto, il terreno brullo, la compostezza assorta. È un’immagine potente, ma anche costruita. Perché Harry non è più solo il figlio. È anche il brand. Il portavoce. L’imprenditore del suo passato.

Eppure, qualcosa lì commuove. Forse perché in quel gesto c’è del vero. Un uomo cresciuto nella tragedia cerca ancora, a distanza di decenni, un modo per connettersi con l’unica figura che gli ha dato senso. L’unica che non lo ha mai tradito.

Casa Windsor: una famiglia con addetto stampa incorporato

Ma mentre Harry cammina tra le mine del passato, a Londra si muove un altro tipo di campo minato: quello dei rapporti familiari. Secondo indiscrezioni (quelle che contano, cioè quelle anonime e "vicine a palazzo"), c’è stato un incontro tra i collaboratori del principe e quelli di Re Carlo. Non un tête-à-tête tra padre e figlio - sarebbe troppo umano - ma un dialogo a distanza, filtrato da agende, portavoce e un senso costante di disagio emotivo.

Il Re, a quanto pare, sarebbe disposto ad ascoltare. Anche perché il tempo stringe e la salute non è più quella di un tempo. E poi, in fondo, Harry è pur sempre il figlio minore. Quello complicato, sì, ma anche quello che, malgrado tutto, porta il sangue blu e la storia sulle spalle.

William, invece, è un altro capitolo. Un muro. Un abisso gelido. Non è arrabbiato: è deluso. Profondamente. Quasi irreversibilmente. Da compagni di giochi a estranei pubblici nel giro di pochi anni. Una distanza che non si colma con le parole né con una visita in Angola. William ha scelto la continuità, la sobrietà, il silenzio. E, almeno per ora, non sembra avere intenzione di deviare dal copione.

L’eredità silenziosa della regina e la monarchia del futuro

A rendere tutto più complicato è l’assenza di Elisabetta II, la grande matriarca che, con un solo sguardo, sapeva tenere insieme le crepe di un sistema antico. Lei era il collante. Anche quando taceva, il suo silenzio era più potente di mille discorsi.

Ora che non c’è più, il castello sembra più fragile. Più esposto. Re Carlo cerca di mantenere il controllo, ma non ha l’aura granitica della madre. È un sovrano “transitorio”, lo sa lui e lo sa il Paese. Il futuro è tutto nelle mani di William. E proprio per questo, ogni gesto di Harry diventa una mina in un campo che nessuno vuole esplorare.

Harry resta un Windsor, anche se si firma “Sussex”

Ed eccoci qui, con un Harry sospeso tra due mondi. Quello che ha lasciato e quello che non lo ha mai lasciato davvero. Cerca di liberarsi dal peso del lignaggio, ma ne porta ogni giorno la cicatrice. Si allontana, ma continua a tornare. Magari non in carne e ossa, ma con i gesti, i simboli, le battaglie.

E se davvero dovesse esserci una riconciliazione col padre, sarà più simile a un armistizio che a un abbraccio. Una tregua diplomatica più che un momento di tenerezza. Perché i Windsor non si abbracciano. Si scrivono lettere. Si parlano attraverso i segretari. E al massimo si danno pacche sulle spalle nei giardini.

Il prossimo atto? Forse a Natale. Forse a un funerale. Forse mai.

Harry, intanto, cammina. Tra le mine, tra i ricordi, tra i silenzi. Cammina come faceva Diana. Ma non è lei. E non sarà mai del tutto libero da ciò che rappresenta. Perché nei Windsor puoi andartene, puoi cambiare Paese, cognome e continente. Ma la tua parte nel copione resta lì, pronta a essere interpretata di nuovo, appena si accende la luce.

Carlo Di Stanislao

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