Gergiev, Caserta e la verità della musica: quando l’arte non basta

 

Foto Wikimedia

"La propaganda è all’arte ciò che la menzogna è alla verità."  Albert Camus

Mosca – Doveva essere un evento trionfale, una celebrazione dell’arte come veicolo di unità nazionale, ma si è rivelato un gesto isolato, quasi malinconico. Il grande evento davanti al Teatro Bolshoj, la diretta pubblica della nuova messa in scena di Semjon Kotko di Sergej Prokofiev diretta da Valerij Gergiev, si è svolto sotto un cielo limpido, in una piazza deserta. Tutto era pronto: palco, luci, maxi-schermo. Mancava solo il pubblico.

Poche famiglie distratte, qualche turista, giovani attratti più dall’apparato scenico che dal contenuto musicale. Sui social russi, la diretta si è fermata a poco più di quattromila spettatori: un risultato deludente per un evento promosso per settimane ovunque — dai notiziari ai canali Telegram ufficiali. L’entusiasmo di regime non ha trovato riscontro reale. Una piazza vuota, per un’opera scelta proprio per la sua carica simbolica.

Semjon Kotko, scritta nel 1939, racconta la storia di un soldato sovietico in Ucraina durante la guerra civile e la sua resistenza all’occupazione tedesca. È un’opera fortemente patriottica, idealizzata e intrisa di eroismo sovietico. Portarla in scena oggi, nel pieno di una guerra che coinvolge ancora una volta Russia e Ucraina, non è solo una scelta culturale: è un’operazione politica. È stato un messaggio in codice, un gesto propagandistico mascherato da teatro. E non poteva che essere affidato a Valerij Gergiev.

Da anni figura chiave dell’establishment culturale russo, Gergiev ha diretto le note di una Russia in guerra, spesso senza battere ciglio. È stato il volto delle celebrazioni in Crimea, nel Donbass, nei grandi eventi della “memoria patriottica”. La sua musica ha accompagnato la narrativa ufficiale, non sfidandola mai, ma rinforzandola. Il suo silenzio sugli orrori dell’invasione ucraina è assordante.

Ed è proprio da Mosca che Gergiev sarebbe dovuto approdare in Italia. La sua presenza alla Reggia di Caserta, prevista per il 27 luglio, avrebbe dovuto rappresentare il suo grande ritorno in Europa. Ma non è andata così.

In Italia, la notizia della sua partecipazione ha generato un’ondata di proteste senza precedenti: petizioni con decine di migliaia di firme, appelli firmati da intellettuali, musicisti, attivisti per i diritti umani, ucraini in diaspora. Si sono mobilitati comitati per la pace, associazioni culturali, artisti locali che si sono rifiutati di condividere il palco. Alcuni hanno proposto che l’intero incasso fosse devoluto alle vittime della guerra, altri chiedevano di aprire il concerto con musica ucraina come gesto di dissenso. L’intervento persino di personalità internazionali come Yulia Navalnaya, vedova di Alexei Navalny, ha reso il caso un simbolo politico.

Il Comune di Caserta e la direzione della Reggia si erano trincerati dietro la consueta formula della “separazione tra arte e politica”. Ma questa volta quella formula è sembrata vuota, insufficiente. Troppo comoda. E alla fine, è crollata.

Il 21 luglio, a pochi giorni dall’evento, la direzione del sito ha annunciato l’annullamento ufficiale del concerto. Le pressioni erano diventate insostenibili, ma soprattutto era diventata chiara la posta in gioco: non si trattava di organizzare o meno un evento musicale, ma di decidere da che parte stare.

E così, in uno dei luoghi più belli del patrimonio italiano, si è scelto il silenzio. Non un silenzio imposto, ma un silenzio consapevole. Una rinuncia che è diventata dichiarazione. Una nota mancata che vale più di mille accordi suonati senza coscienza.

Riflessione finale

C’è una domanda che dobbiamo porci, oggi più che mai: cosa significa accogliere un artista in tempi di guerra? E cosa significa rifiutarlo? La risposta non è semplice, ma è necessaria.

In tempi ordinari, la cultura può permettersi l’ambiguità, la distanza, persino l’indifferenza. Ma ci sono momenti in cui ogni gesto pubblico diventa politico, anche — e soprattutto — quando pretende di non esserlo. Il caso Gergiev ci mette di fronte a una verità scomoda: l’arte non basta a giustificare tutto. La bellezza non è un lasciapassare etico. E un direttore d’orchestra, per quanto abile, non è mai solo un musicista quando dirige al fianco del potere.

Annullare quel concerto non è stata una forma di censura. È stata, al contrario, una scelta culturale profonda. Significa riconoscere che la musica, come ogni espressione artistica, non nasce nel vuoto, ma nel mondo reale, tra ferite, ingiustizie, responsabilità. Significa dire che la neutralità, in certi momenti storici, non è un atto di equilibrio, ma una forma di complicità.

Valerij Gergiev non è stato escluso per ciò che suona, ma per ciò che rappresenta. E anche questo è un modo di fare cultura: scegliere chi sale su un palco e chi no, scegliere di non confondere il genio con l’alibi, il talento con l’impunità.

La cultura, quando è vera, non riflette soltanto l’estetica: riflette il tempo in cui nasce, i dolori che la attraversano, le verità che osa dire o che decide di tacere. In questo senso, il palco vuoto di Caserta ha parlato forte e chiaro. Ha detto che l’Europa non è pronta ad accettare tutto, in nome della bellezza. Che ci sono limiti. Che ci sono memorie che non si possono calpestare. Che la musica è anche morale, e che ogni orchestra, prima ancora di suonare, deve decidere per chi suona.

Perché un concerto non è mai solo un insieme di suoni. È un atto pubblico. Un segnale. E in tempi come questi, scegliere di tacere può essere la forma più alta di responsabilità. Può essere la vera nota stonata nella sinfonia della propaganda. Ma anche l’unica davvero intonata con la giustizia.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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