"La tradizione di tutte le generazioni defunte pesa come un incubo sul cervello dei viventi." Karl Marx
Un racconto che commuove, ma non basta
Claudio Caprara, giornalista e uomo cresciuto nella profonda Emilia rossa, ha scritto con Fischiava il vento. Una storia sentimentale del comunismo italiano un’opera che va ben oltre la memorialistica politica. È un libro che parla alla pancia e al cuore, più che alla testa; un mosaico affettivo, fatto di ricordi, volti, riti, sezioni, comizi, giornali murali, assemblee di fabbrica, manifesti scoloriti, ciclostili e pane e salame serviti nelle feste dell’Unità. Ma soprattutto parla di persone. Militanti, segretari di sezione, operai, studenti, madri e figli cresciuti dentro l’orizzonte di un’appartenenza politica totale, che non lasciava zone d’ombra.
Il tono è intimo, affettuoso, mai accademico. Caprara non vuole scrivere la “storia del comunismo”, ma raccontare una storia: quella vissuta da dentro, nei corridoi delle case del popolo, nelle chiacchiere sotto i portici, nei cortei con la pioggia, nella speranza che la politica potesse davvero cambiare il mondo. Ne esce un ritratto corale e umano del Partito Comunista Italiano, spesso dimenticato nella sua dimensione più quotidiana e concreta. Non un’ideologia astratta, ma una trama di legami sociali, di educazione, di impegno e – perché no – anche di allegria.
La nostalgia come risorsa (ma non come rifugio)
Il fascino di questo libro sta nella capacità di far rivivere un’epoca. Ma è proprio qui che si cela anche il suo limite più insidioso: il rischio di parlare solo a chi già conosce e riconosce quel mondo. Di rivolgersi, cioè, a chi “c’era” o a chi “avrebbe voluto esserci”. Perché Fischiava il vento è una lunga lettera d’amore alla militanza, ma non offre indicazioni per orientarsi nel presente. Non ci sono riflessioni sulle trasformazioni economiche, sulle nuove forme del lavoro, sulle sfide ambientali o sulle mutazioni della società digitale. Il mondo narrato da Caprara è finito da tempo, eppure il libro lo osserva come se fosse ancora un presente possibile. Si percepisce una malinconia di fondo, che accarezza e avvolge, ma che rischia di diventare paralizzante se non si trasforma in slancio.
Ecco perché la nostalgia, in politica, è una materia delicata. Può essere uno strumento di coesione e identità, ma diventa un peso quando si sostituisce alla progettualità. Può dare radici, ma non deve diventare zavorra. Per una sinistra che da anni fatica a ritrovare una voce comune, rifugiarsi nel ricordo del Pci rischia di essere rassicurante quanto sterile.
Lezioni da non dimenticare
Eppure, sarebbe un errore liquidare il libro come “operazione nostalgia”. Caprara ci consegna molto di più. Ci fa vedere, con la forza narrativa del vissuto, che cosa significava davvero essere sinistra in un'epoca in cui quella parola non era ambigua, né difensiva, né esangue. Mostra un tempo in cui la politica si faceva non solo con le idee, ma con la carne e il sangue. E ci dice – senza bisogno di proclami – che forse, qualcosa di quell’esperienza può essere ancora oggi vitale.
Ci sono almeno tre grandi insegnamenti che si possono raccogliere da queste pagine. Il primo è il valore della formazione politica: il Pci educava i suoi iscritti, li preparava, li formava al pensiero critico. Oggi la sinistra sembra spesso disarmata sul piano culturale, come se avesse smarrito le proprie radici intellettuali. Il secondo è la presenza nei territori: sezioni, case del popolo, feste popolari erano luoghi reali, fisici, in cui la politica viveva ogni giorno. Oggi molti partiti si riducono a comitati elettorali digitali, sconnessi dai bisogni concreti. Il terzo è la visione collettiva: si stava insieme non per difendere interessi privati, ma per immaginare un mondo più giusto. La sinistra era, prima di tutto, un orizzonte comune.
Raccontare non basta: serve immaginare
Ma è proprio qui che nasce il paradosso. Il libro ci fa sentire quanto fosse potente quella comunità, e quanto oggi ne sentiamo la mancanza. Ma non ci dice come ricostruirla. Non propone un lessico nuovo, né una grammatica per il futuro. Resta incastonato in un passato che, per quanto glorioso, è definitivamente tramontato. E il presente – con le sue nuove solitudini, disuguaglianze, paure e tecnologie – non trova spazio.
La sinistra, per rinascere, non può accontentarsi di ricordare. Deve tornare a immaginare. Deve saper parlare a chi non ha memoria del Novecento, a chi è cresciuto tra algoritmi e precarietà, a chi non ha mai messo piede in una sezione, ma ha fame di giustizia, di uguaglianza, di senso. Deve trovare nuove parole che non siano la copia sbiadita del passato, ma l’invenzione coraggiosa di un futuro possibile.
Conclusione
Fischiava il vento è un’opera preziosa, toccante, necessaria. Serve a ricordare da dove veniamo, e a restituire dignità e spessore a un mondo politico spesso vilipeso o rimosso. Ma non basta. Perché il vento, oggi, fischia ancora – ma in direzioni diverse, più caotiche, meno riconoscibili. E per capirlo, serve più che la nostalgia. Serve coraggio, serve pensiero, serve una nuova lingua.
La sinistra non può vivere solo del ricordo di ciò che è stata. Deve imparare a raccontare ciò che vuole diventare. Solo allora, forse, tornerà a soffiare il vento della speranza.
Carlo Di Stanislao
Foto da Facebook