Spiaggia di Siculiana Marina (AG)
Una storia lunga ottant’anni
Per capire da dove viene questo groviglio normativo e culturale, bisogna fare un salto nel tempo. Le prime concessioni demaniali marittime, così come le conosciamo oggi, iniziarono a essere distribuite nell’Italia del dopoguerra, tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50. In un Paese piegato dalla guerra, in cerca di occupazione e ricostruzione, lo Stato decise di incentivare l’uso turistico delle coste, assegnando concessioni a famiglie locali, ex pescatori, piccoli imprenditori che potevano trasformare porzioni di spiaggia in attività redditizie. Spesso le concessioni erano date con criteri poco formalizzati, con rinnovi taciti, automatici, o addirittura verbali, nella logica di "mettere a lavorare" chi poteva.
Col tempo, quella che doveva essere una concessione temporanea è diventata una trasmissione ereditaria, di fatto una proprietà privatizzata su suolo pubblico. In molti casi, gli stabilimenti sono passati da padre in figlio, senza mai rimettere in discussione il diritto a gestire quel tratto di mare. Alcuni sono diventati vere e proprie aziende a conduzione familiare. Altri, invece, sono finiti in mani molto più forti: gruppi imprenditoriali, società, oppure soggetti che, grazie a una posizione di privilegio, hanno incassato per anni, con margini altissimi e canoni ridicoli.
Oggi in Italia si contano oltre 30mila concessioni balneari, e in molte aree l’accesso al mare è ostacolato o reso impossibile per i cittadini. Secondo dati ufficiali, più del 60% delle coste sabbiose italiane è occupato da stabilimenti privati. E mentre i canoni versati allo Stato spesso non superano i mille euro l’anno, i guadagni arrivano anche a centinaia di migliaia. In un caso estremo, una concessione sull’Isola d’Elba versava 80 euro all’anno. Il costo dell’inerzia lo stiamo pagando tutti noi.
Un immobilismo da 110 milioni di euro
Il governo ha provato a riscrivere la norma, cercando di "compensare" i concessionari uscenti per spingerli ad accettare i bandi. Ma la Commissione è stata chiara: la rendita di posizione non si risarcisce. Non si può creare un diritto dove non c’è mai stato. E soprattutto, non si può obbligare un nuovo concessionario a versare denaro a chi c’era prima: sarebbe un ostacolo all’entrata, quindi un freno alla concorrenza. Il risultato? O si riscrive il decreto, o scatteranno le multe. Vere, salate, già messe nero su bianco.
A oggi, a forza di rinvii e forzature, l’Italia rischia di pagare oltre 110 milioni di euro in sanzioni europee, con una cifra che aumenta ogni giorno. La procedura d’infrazione aperta nel 2020 è ancora lì, e la condanna, se confermata in via definitiva, porterà a una doppia voce di pagamento: una sanzione forfettaria e una giornaliera. Tradotto: ci costa milioni non cambiare nulla.
Cosa ci costa davvero questa inerzia?
Per rendere l’idea di cosa significhi sprecare 110 milioni di euro, basta guardare a cosa si sarebbe potuto fare:
- Assumere oltre 2.200 infermieri per un anno (costo medio annuo: circa 50.000 euro lordi).
- Finanziare 1.800 nuovi medici ospedalieri, contribuendo a colmare la carenza cronica di personale sanitario.
- Costruire almeno 60 chilometri di strade urbane moderne, sicure, con standard europei (costo medio: 1,8 milioni/km).
- Realizzare 35 nuove scuole elementari o medie, considerando un costo medio di costruzione tra i 3 e i 4 milioni per edificio.
Cifre indicative, ma parlano chiaro: ogni giorno di ritardo, ogni concessione difesa oltre ogni logica, ha un prezzo concreto, misurabile, che paghiamo con servizi che non ci sono.
Tassisti: un parallelo che brucia
Il tema delle concessioni balneari ricorda in modo inquietante un altro fronte mai davvero risolto: quello delle licenze taxi. Anche lì, il servizio pubblico è affidato a privati in regime protetto, spesso con barriere insormontabili all’accesso. E ogni tentativo di apertura, liberalizzazione, modernizzazione, viene visto come un attacco frontale alla categoria.
Quando si parla di taxi, si alzano subito gli scudi: "abbiamo investito", "abbiamo comprato la licenza", "ci siamo guadagnati la piazza". È lo stesso schema che si ripete con i balneari. Ma è uno schema tossico per un’economia sana. Una licenza taxi, come una concessione balneare, non è una proprietà privata. È un’autorizzazione pubblica, rilasciata a tempo, con un fine preciso: fornire un servizio efficiente, accessibile, trasparente. E quando questo non avviene più, le regole devono cambiare.
Chi ha paura del futuro?
Chi oggi difende a spada tratta i concessionari storici, evocando sacrifici, lavoro, tradizione, dimentica un dettaglio essenziale: non si può vendere ciò che non ci appartiene. Il demanio marittimo è dello Stato, dunque dei cittadini. Le concessioni sono strumenti temporanei, non proprietà ereditarie. E non possono essere utilizzate come garanzia patrimoniale, né trasformate in merce da scambiare sul mercato.
Chi ha gestito per anni uno stabilimento balneare o una licenza taxi e lo ha fatto bene, non dovrebbe temere la concorrenza. Dovrebbe anzi desiderarla: perché solo attraverso la competizione si dimostra il proprio valore. Chi invece ha vissuto solo di posizione, protezioni, automatismi, allora ha tutto da temere.
Il futuro non ha bisogno di privilegi
L’Italia è arrivata a un bivio: continuare a difendere l’indifendibile o aprirsi finalmente a una nuova stagione di concorrenza, trasparenza e opportunità. La Commissione Europea non ci sta imponendo una punizione: ci sta offrendo una scossa. Una sveglia. E se la ignoriamo, ci costerà cara. Non solo in milioni di euro di multe, ma in credibilità, sviluppo e giustizia sociale.
Carlo Di Stanislao