Roberta Barbi - Città del Vaticano
“Nessuna condizione definisce per sempre una persona”. Ha iniziato così il suo incontro con gli ospiti degli istituti di pena di Reggio Emilia, Carlo Calcagni, portando un messaggio di luce e speranza. Il colonnello, durante una missione di pace, è stato esposto all’uranio impoverito, riportando gravi patologie invalidanti; da allora ha “ripreso rapporti con una vecchia amica” – la bicicletta – ed è diventato campione di Atletica Paralimpica. Macinando record su record è diventato un esempio vivente di come ci si possa sempre rialzare e di come ci sia sempre una speranza, come ci insegna anche l’Anno Santo che stiamo vivendo.
Malattia e carcere possono trasformarsi in speranza
Nell’incontro “Il dono della vita”, il colonnello Calcagni è entrato subito in sintonia con i ristretti, paragonando la propria condizione di malattia alla loro di privazione della libertà personale: “Viviamo entrambi in prigione – ha raccontato ai media vaticani – io di un corpo che mi causa dolore ogni giorno. Come loro conosco la limitazione, il senso di impotenza e il desiderio di evasione, ma la vera libertà non è quella fisica, bensì quella interiore, spirituale, e si raggiunge scegliendo di non arrendersi alla realtà, ma trasformandola, con consapevolezza e amore, in speranza”.
L’affetto dei ristretti
Nel corso dell’incontro, i detenuti hanno rivolto al colonnello molte domande sulla sua storia, e lo hanno omaggiato anche di alcuni regali, frutto del laboratorio artistico cui partecipano in carcere: la miniatura di un elicottero militare per ricordare il glorioso passato di Calcagni, un quadro intitolato “L’immortale”, ma soprattutto un delfino intagliato nel legno, animale che sta molto a cuore al colonnello. “Il delfino è un meraviglioso simbolo di forza, gioia e rinascita – rivela – vive nel mare che, a seconda delle occasioni, può essere una tempesta o una culla, proprio come la vita. Vederne uno così bello scolpito da mani che hanno tanto sofferto è stato molto significativo e commovente”.
Carcere è l’anagramma di cercare
Non era la prima volta che Calcagni entrava in un carcere: “Mi colpisce molto l’umanità dei detenuti – prosegue – il loro desiderio di confronto, di ascolto e soprattutto di riscatto, di essere visti come uomini, non come numeri. In quella sala non c’erano barriere tra me e loro, ma cuori che cercavano verità e forza”. È allora che ha proposto ai ristretti quel suo gioco di parole tra il termine “carcere” e il termine “cercare”: “Cercare di non fermarsi, di vivere le emozioni, le passioni, di donarsi agli altri senza nulla chiedere in cambio, di perdonarsi e di perdonare – spiega – io stesso ogni giorno cerco un senso a quello che mi è capitato e lo trovo solo ricordando la mia missione che è solo cambiata”. “Se prima salvavo vite umane con l’elicottero, oggi lo faccio con la mia testimonianza che non ci si deve mai arrendere, ma sempre rialzarsi e ricominciare – conclude - e questo mi ripaga di tutto”.
Vatican News 29.06.2025