Roma, in mostra M'BAREK BOUHCHICHI "mi sto avvicinando a te"



Le opere possono a prima vista essere ascritte al genere dei ritratti, tuttavia rifuggono da questa classificazione.

Infatti, non solo il dispiegarsi continuo di una figura in successione all’altra evoca una storia collettiva, ma anche la dimensione identitaria dei protagonisti rimane sospesa nell’assenza di nomi personali nei titoli.

Il colore così nero dei soggetti ritratti le configura come delle silhouettes se viste da lontano: delle tracce nere, ulteriormente non definite e apparentemente non definibili: questa scelta richiama la secolare limitazione dell’identità nera a oggetto, oggetto di dominio richiamando indirettamente il pensiero elaborato da Achille Mbembe in Black Reason (Raison Nègre, Duke University Press, 2017). La discriminazione viene perpretrata “riducendo il corpo e l’essere vivente a mere questioni di apparenza, pelle e colore, e attribuendo a pelle e colore lo status di finzione basata sulla biologia”.

Realizzati con tecnica mista e catrame su gomma, i dipinti raccontano direttamente una tra le più sanguinose e violente storie di estrazione. La gomma arabica è una risorsa che, prima dell’epoca industriale, trova impiego in numerosi settori: dai tessuti alla cosmetica, dall’industria alimentare alla produzione della carta. La raccolta della gomma dagli alberi di acacia (Acacia verek e Acacia senegal) avviene anche praticando incisioni sulla corteccia, che stimolano la fuoriuscita della sostanza in maggiore quantità. Già nel XVI secolo, la gomma proveniente dal sud-ovest del Sahara inizia a raggiungere i mercati europei e nel XVIII secolo il Sahara mauritano diventa quasi l’unica fonte per il continente europeo, con un epicentro commerciale a Saint Louis. Gli schiavi raccolgono, estraggono e trasportano la gomma, soprattutto attraverso le acque del fiume Senegal e la rotta atlantica. Questo materiale, centrale nell’opera pittorica di Bouhchichi, ci riporta in quel tempo in quei luoghi, cessando la sua funzione di supporto pittorico. Questi sfondi, queste basi - dunque soggetti e protagonisti loro stessi - mostrano figure che rimangono: la loro impressione retinica, quasi in una vera e propria persistenza dell’immagine è effettiva. Ma sono anche specchi attraverso cui l’artista interroga se stesso, rendendo la pittura un atto di resistenza e di rilettura della storia. Si guardano e ci guardano. Una storia, non trascrivibile, composta da sguardi altrettando indescrivibili. Nelle opere di formato più piccolo ci sono ingrandimenti, messe a fuoco e solo un avvicinamento consente l’esperienza delle tracce di catrame negli occhi.


Il silenzio, solo apparentemente innocente del materiale scelto, è evocato anche nell’opera scultorea: l’agave. Questa pianta, originaria del Messico, si è spostata nei secoli nei diversi Paesi ed ha trascorso decenni a raccogliere l’energia, la luce, immagazzinando nel cuore delle sue foglie la pazienza del tempo. Ora il suo stelo è finalmente fiorito carico di semi, trattenuto in un respiro sospeso prima dell’esplosione: è proprio questo il momento ritratto dall’artista. Dopo anni lunghissimi di crescita la fioritura - una e sola nel corso della vita di un agave. Questo è quell’attimo di quiete assoluta prima che l’armattano - il vento secco del Sahara - la sfiori e disperda i suoi frutti nell’aria. Questo è il silenzio che precede la fine, ma anche l’inizio di qualcosa d’altro.

testo di Chiara Ianeselli

Foto: installation views_photo credit Christan Rizzo

Galleria ValentinaBonomo

fino al 20 maggio 2025

dal martedì al sabato h. 15-19

via del portico d’Ottavia 13, Roma

Fattitaliani

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