GIUSEPPE CESARO: LA MORTE È SILENZIO E VUOLE SILENZIO

 


Intervista all’autore di “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce”

di Mariano Sabatini

Una discesa nello sprofondo della sofferenza vissuta con compostezza, lucidità, consapevolezza, il memoir di Giuseppe Cesaro Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce (ed. La nave Teseo), con la prefazione del regista dei sentimenti Pupi Avati. Sappiamo, tuttavia, che conoscere non vuol dire sentire; o meglio: saper gestire il dolore dal punto di vista cognitivo, ammaestrarlo, non lo rende meno aggressivo, e non fa meno male. Nel libro di Cesaro, di rara eleganza e dolcezza, il dolore diventa un personaggio, con le sue evoluzioni e regressioni. Le agnizioni che in un altro genere di narrativa chiameremmo colpi di scena e le necessarie rassegnazioni. Dinanzi a certi violenti scossoni non serve, infatti, irrigidirsi. È tanto meglio accettare l’attraversamento. Farsi pervadere e possedere, riorganizzarsi attorno al nucleo palpitante che ormai ha preso dimora in noi. Leggere l’ecatombe al femminile di Cesaro è in tal senso un quieto, sapiente, per certi versi imprescindibile apprendistato all’arte di dire addio. In questo il prolifico scrittore romano si rivela un maestro di sensibilità e metodo, facendo della rievocazione del lutto – anzi, dei precoci lutti, purtroppo (la morte della madre, della sorella, della moglie)- occasione di riflessione, analisi, ristrutturazione di sé. Utile a tutti. Come prima di lui, solo per fare un paio di esempi, Lewis con Diario di un dolore, oppure Didion nell’Anno del pensiero magico. <<Credo che, qualunque forma essa assuma, la narrativa sia sempre narrativa del lutto. La morte è il mistero dei misteri. Se non si scrive di quello, di cosa si scrive? Il fatto è che nasciamo con un insopprimibile bisogno di infinito e ci ritroviamo condannati a vivere in una realtà nella quale ogni cosa è finita. L’arte non è altro che l’urlo, rabbioso, dell’umanità di fronte a chi le ricaccia in gola quel bisogno. Ha ragione Leopardi: l’ultima difesa contro il nulla è il canto della poesia. Scrivere è questo o è fuffa. Peggio: truffa>> ci dice Giuseppe Cesaro.

Scrivi che il tempo non cura, cronicizza… e cosa può aiutare?

La bellezza. Non so se – come dice il principe Myškin–salverà il mondo. So, però, che può salvare noi umani. A me è successo. Più di una volta. Non ci fosse stata lei, sarei morto dentro, decine di anni fa.

Le parole di chi ci resta accanto, l’affetto dei cari possono essere di conforto?

L’affetto. Se è autentico. Le parole no. Invenzione sublime: possono tantissimo ma non tutto. E, di fronte alla morte, si rivelano impotenti. Anche perché, di solito, scegliamo le peggiori: false, vuote, oscene. Parole di superficie. Come impronte sulla sabbia,scompaiono alla prima carezza del mare. Perché aggiungere squallore al dolore?

È meglio affidare il lutto al silenzio?

Molto meglio. La morte è silenzio e, secondo me, vuole silenzio. Dovremmo rispettare la sua natura e la sua volontà. Il silenzio è comprensione, condivisione, rispetto. Dice tutto. Romperlo, soprattutto di fronte a un cuore straziato, è un oltraggio imperdonabile.

Come si raggiunge quella inconsapevolezza, che è tipica degli altri animali, che può rendere la vita di chi resta più sopportabile?

Non lo so. Credo sia impossibile. E, forse, è meglio così. «Siamo la forma più elevata di vita sulla terra, eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire», scrive Don De Lillo. Ha ragione. È la nostra condizione. E ce la dobbiamo tenere stretta. Senza questa consapevolezza, infatti, saremmo niente. Non solo confonderemmo l’incoscienza con la felicità, ma perderemmo quella umanità che, nella sua accezione più alta, è ciò che ci rende capaci di amore e di poesia. E, senza amore e poesia, diventeremmo disumani.

Sbagliamo a chiamarlo passato, certe cose non passano mai, sostieni. Però si attenuano?

Perché la memoria contiene una sorta di “salvavita”: toglie il filo alle lame, smussa gli angoli, addolcisce gesti, sguardi, parole. Ma è bene che il passato – per quanto duro e doloroso – non passi mai del tutto. Non dobbiamo dimenticare il dolore. Solo così, infatti, possiamo ricordare che serenità e felicità sono rarissime e, quindi, preziosissime, e abbiamo almeno una chance di capire che non dobbiamo procurare dolore agli altri.

Hai vissuto la vita di qualcun altro, riveli, come sei riuscito a trovare la forza di andare avanti?

Per il bisogno di dare un senso al tempo. Due lutti così grandi nel giro di otto anni, tra infanzia e adolescenza, mi hanno insegnato che la vita ti può strappare di mano le cose che ami di più, all’improvviso e senza alcun riguardo. Il fatto che, da un momento all’altro, ci si possa ritrovare soli, vuoti e persi ci deve aiutare a capire l’immenso valore di quella cosa che chiamiamo tempo. Un grande pensatore dell’antichità diceva: non è vero che abbiamo poco tempo, è che ne sprechiamo tantissimo. Il dolore può aiutarci a non farlo.

Non avrei mai avuto una vita normale… che vita è stata ed è invece?

Straordinaria. Nel senso letterale: fuori dall’ordinario. Costellata di grandi dolori ma anche di grandi incontri. Persone in carne e ossa o incontri ideali: arte, musica, grande letteratura, grande cinema, grandi spazi… Suoni, immagini, parole che ti fanno sentire che non sei solo e ti aiutano a decifrare l’indecifrabile e ad affrontare l’inaffrontabile. Più le anime sono grandi, più aiutano la tua a sentirsi un po’ meno piccola.

La morte è una rivelazione. Lo è per tutti o c’è chi riesce a passare indenne il lutto?

Solo chi è autenticamente e profondamente stupido ci riesce. Credo che la morte sia una rivelazione solo per gli spiriti più alti. Per tutti gli altri, rimane un mistero. Drammatico, doloroso, disperante ma anche illuminante. Come la notte, infatti, è indispensabile per sapere che esistono le stelle. La cosa più importante è non rimuoverla. Infilare la testa nella sabbia, significa perdere due volte. Non solo la morte ci trova lo stesso ma, nel frattempo, noi ci perdiamo anche la vita.

Il potere se ne frega dell’aldilà. Più che mai attuale con la morte del papa?

Attualissimo. Il potere se ne frega persino dell’unico pianeta che abbiamo, figurarsi se può interessarsi di un aldilà che non si sa nemmeno se esista o no. Al potere interessa sono una cosa: spremere, fino all’ultima goccia, tutto ciò da cui può ricavare qualcosa: animali – umani inclusi – vegetali, minerali… Lui non fa differenze. Arraffa, divora, distrugge. Non si è mai fermato. E non si fermerà. Nemmeno quando non gli rimarrà nient’altro da divorare se non sé stesso. Sarà quella l’Apocalisse. E, a meno di qualche miracolo, direi che siamo sulla buona strada.

L’incomprensibile è cura e non malattia. L’anticamera della rassegnazione?

Al contrario: il big-bang della curiosità. Ciò che ci spinge a cercare di rendere comprensibile quanto ci appare incomprensibile in noi stessi, negli altri, nella vita, nel fine e nel dopo-vita… Spesso falliamo, è vero. Quel fallimento, però, non è la fine ma il movente di una nuova partenza. Nella vita, la meta conta e affascina infinitamente meno del viaggio. Viaggiamo, dunque. E prendiamoci la vita, prima che lei si riprenda noi.

Come mai hai deciso di continuare a scrivere dopo l’annuncio che avresti smesso?

Ho detto che avrei smesso di pubblicare. Dopo questa sorta di lettera aperta a mia mamma, però.Di pubblicare, non di scrivere. Io sono la mia scrittura: smettere di scrivere significherebbe smettere di esistere. Pubblicare, invece, per come si muove il mercato editoriale oggi, non ha molto senso, a meno che uno non appartenga a un qualche circolo magico

Sei una penna poliedrica, cosa preferisci scrivere però?

Mi pongo delle domande e cerco di condividerle. Domande, non risposte. Non ne ho per me, non posso certo darle agli altri. Mi guardo intorno e mi chiedo: “perché?”. E invito gli altri a fare la stessa cosa. Credo che sia fondamentale non dimenticare mai la differenza che c’è tra l’ideale – le cose come dovrebbero essere – e il reale – le cose come sono. E fare tutto il possibile per cercare di colmare questa distanza. Anche un piccolo passo avanti in questa direzione può essere rivoluzionario. Per noi stessi e per gli altri.

Ti preoccupa il milione di lettori in meno di cui si scrive in queste ore?

Mi preoccupa il fatto che tutti ne parlino ma nessuno faccia niente. In Italia, si pubblicano più di 85mila titoli nuovi l’anno. Più di 230 al giorno: quasi 10 ogni ora. E, di certo, non 10 “Fratelli Karamazov”. Una follia. Sperare che il titolo di un bravo autore semi-sconosciuto venga notato è come sperare che qualcuno si accorga di una pallina da ping-pong lanciata in uno stadio stracolmo di palline da ping-pong. Impossibile. Ma la domanda più importante è: come fa chi guarda quello stadio dalla tribuna, a scegliere quali sono le “palline” che vale davvero la pena di “giocare”? Come ghost, ho avuto vendite, premi e recensioni entusiastiche. Come autore, le recensioni continuano a essere entusiastiche ma il resto non si muove. Come mai, visto che la penna è la stessa? “È il mercato, bellezza”. E, dato che, il mercato è una creatura dell’uomo e non viceversa, vuol dire che qualcuno lo vuole così. Che posso dire? Prosit!

 


Fattitaliani

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