Tra blockbuster americani, tappeti rossi sponsorizzati e registi invisibili, Cannes non è più la patria del cinema d’autore. È solo l’ennesimo red carpet per Hollywood.
“Il cinema è un’arma meravigliosa: se si sa usarla.” – Jean-Luc Godard
Cannes non è più Cannes. È Beverly Hills con un accento francese.
Il Festival che un tempo incoronava gli autori, accendeva le polemiche e sfidava i poteri forti del cinema oggi somiglia sempre più a un showroom luccicante dove tutto è in vendita: immagini, dichiarazioni, emozioni. Il cinema come linguaggio è stato sostituito dal cinema come posa.
La selezione ufficiale 2025 sembra il programma di un multisala di Los Angeles: sequel miliardari, attori col contratto Marvel, e registi indie ridotti a contorno per le foto promozionali. Lo spirito di Truffaut e Godard si sarà preso un Ryanair per Locarno, o si è ritirato in silenzio da qualche parte, lontano dai selfie e dai branded cocktail.
I film che un tempo dividevano la platea, oggi sono rimpiazzati da titoli unanimemente inoffensivi, progettati per piacere, non per rischiare. Le sale un tempo vibranti di tensione e dissenso oggi sono piatte: si applaude per protocollo, si fischia solo se lo decide Twitter. La critica è diventata content, e i registi si sono trasformati in testimonial.
Una standing ovation studiata, una commozione calibrata, un applauso perfettamente sincronizzato con le telecamere. Nessuno in sala sembrava realmente disturbato, nessuno sembrava voler mettere davvero in discussione un sistema che, in fondo, continua a premiare i potenti e a proteggere i volti celebri. La stessa macchina che ha permesso a Depardieu di essere celebrato per anni è quella che oggi applaude la sua condanna con aria contrita, senza mai guardarsi allo specchio.
Intanto, nei panel sponsorizzati, si parla di “storytelling inclusivo”, ma intanto si proiettano le solite storie. Si citano Pasolini e Varda, ma si programmano film pensati per vendere merchandising. Il cinema europeo, quello vero, resiste ai margini, nei corridoi, nei bar degli accreditati, nei mormorii di chi non viene più invitato ai party di Netflix.
Il paradosso è chiaro: Cannes, nato per difendere il cinema europeo dal dominio culturale americano, è diventato il salotto buono della stessa Hollywood che doveva contrastare. E non perché costretta: lo ha scelto. Ha aperto le porte, steso i tappeti, firmato gli accordi.
Chiosa finale:
L’identità non si perde tutta d’un colpo. Si smussa, si addomestica, si vende un’inquadratura alla volta. Cannes ha venduto la sua. In cambio ha ottenuto follower, sponsor, e uno streaming mondiale. Ma il cinema, quello vero, quello che brucia e divide, da qualche parte ha già fatto le valigie. E non ha lasciato l’indirizzo.