Una mattina di primavera, settant’anni fa, Albert Einstein si svegliò per l’ultima volta.
Era il 18 aprile 1955 a Princeton (New Yersey), in una stanza d’ospedale dove era stato ricoverato a seguito di una emorragia causata da un aneurisma dell’aorta addominale. Sul comodino dei fogli con degli appunti sulla cosiddetta “teoria del tutto” che doveva riunire la relatività con la meccanica quantistica, un tema verso il quale aveva mostrato un certo scetticismo ma che lo aveva tenuto occupato negli ultimi giorni della sua vita. Morì poche ore dopo. Ma Einstein per certi versi lo ritroviamo oggi ancora qui tra noi, nelle costellazioni piegate dal tempo, nei satelliti che calcolano la tua posizione con precisione relativistica, nei pannelli solari che assorbono fotoni come lui aveva predetto, nei circuiti quantistici che smentiscono la sua diffidenza verso il caso. È nei meme, nei poster, nelle tazze da colazione con la lingua di fuori.Così settant’anni dopo, quel
vecchio uomo con i capelli arruffati continua a parlarci. E oggi, nel tempo
delle intelligenze artificiali, delle guerre infinite e delle verità liquide,
ascoltarlo è più urgente che mai. Nacque il 14 marzo
1879 a Ulma, in Germania, nel giorno
in cui si celebra il Pi greco — un presagio da romanzo. La madre gli regala un
violino, il padre una bussola. Lui capisce che c’è qualcosa di invisibile che
orienta gli aghi e le orbite, e decide di cercarla. Sarà questo il suo daimon,
la sua vocazione: ascoltare il mormorio segreto dell’universo. A scuola qualche
professore lo reputa inadeguato. Troppo assorto, troppo libero. Ma Albert è
come un uccello nato per volare fuori dal reticolo scolastico. A 16 anni, la
famiglia si trasferisce a Pavia, dove il
padre aveva avviato un’attività che avrebbe partecipato ai lavori per
l’illuminazione di un palazzo sede di alcuni istituti dell’ateneo pavese. E qui
succede qualcosa di magico. “Furono i giorni più felici della mia vita”,
scriverà. L’Italia gli regala bellezza, tempo per pensare, luce per immaginare.
Studia da solo ma non è ancora pronto per l’università. Verrà respinto. Dovrà
aspettare. Frequentare una scuola liberale a Aarau, in Svizzera. E poi il Politecnico di Zurigo. È lì che incontra Mileva Marić, sua futura moglie e prima
interlocutrice intellettuale. I due discutono di fisica, matematica, sogni. Una
coppia come un’equazione, finché il risultato non si complica.
L’Annus Mirabilis
Einstein fa fatica a trovare un
lavoro accademico. Troppo anticonformista, troppo giovane. Lo otterrà invece
all’ufficio brevetti di Berna. E qui, nel 1905, accade l’incredibile. In quell’anonimo
ufficio grigio, con carta e penna, Einstein spalanca le porte del cosmo.
Pubblica cinque articoli scientifici, di cui almeno tre rivoluzionari. È il suo
annus
mirabilis. Uno di questi articoli introduce la teoria della
relatività ristretta. Il tempo, lo spazio, la massa: tutto è relativo al punto
di vista dell’osservatore. Niente è assoluto, tranne la velocità della luce. “E = mc²” è
la sintesi più elegante e tremenda del secolo: massa ed energia sono la stessa
cosa che si traveste. La luce, scrive Einstein, non cambia mai passo. È come
una divinità neutra che scorre con la stessa velocità, sia che le si corra
accanto, sia che le si venga incontro. Da qui nasce una nuova visione del
mondo: non esiste un tempo universale. Ogni orologio batte secondo il proprio
viaggio.
Ma Albert non si ferma. Nel
1915, dopo dieci anni di ostinazione e formule che sembrano partiture musicali,
pubblica la teoria della relatività generale. La gravità non è più una forza
misteriosa, ma la curvatura dello spazio-tempo. Come una palla che deforma un
tappeto, ogni massa curva l’universo attorno a sé. Anche la luce curva. Le
stelle si piegano nel buio. L’universo, d’un tratto, diventa elastico, poetico,
sorprendente. Eppure Einstein non era mai soddisfatto. Non gli bastava
spiegare. Cercava un senso. Voleva unificare tutto: le forze della natura, i
popoli della Terra, la mente e il cosmo.
Nel 1919, un’eclissi di Sole
conferma la teoria. La luce delle stelle devia come previsto da Einstein. Il
mondo si accorge del genio. La stampa lo celebra. Le fotografie lo inseguono.
Nasce il primo scienziato pop della storia. Ma dietro l’applauso, Einstein
resta un uomo inquieto, un viandante del pensiero. Nel suo violino cerca
armonie invisibili. Nei tramonti legge equazioni. Non indossa calzini, non si
pettina, non ama la formalità. A chi lo cerca per una verità definitiva, offre
sempre un dubbio in più. “Il mistero è la cosa più bella che possiamo
sperimentare”, dice. Ed è il mistero che comincia a sedurlo più della fisica.
Un viaggio dentro la mente e l’anima dello scienziato
In un libro pubblicato di
recente, dal titolo Sono parte dell’infinito (Egea, 2024), Kieran Fox - neuroscienziato, non biografo - ci
accompagna in un viaggio diverso: quello dentro la mente e l’anima di Einstein.
Il titolo è una sua frase. “Una parte dell’infinito”. Era così che si
sentiva. Einstein, ci spiega Fox, in un
certo senso era anche un mistico oltre che un grandissimo scienziato: un
mistico razionale. Un panteista senza tempio. Leggeva Spinoza, citava le
Upanishad, parlava con Tagore di coscienza
cosmica. Non credeva in un Dio personale, ma in un ordine sacro sottostante il
mondo. Per lui, “scienza e spiritualità erano due sguardi sullo stesso
mistero”.
La sua “religione cosmica” -
termine suo, non inventato - non chiedeva riti o dogmi, ma meraviglia. “La sua
spiritualità - racconta Fox - non
offre credenze confortanti. Anzi, ci chiede di accettare i nostri limiti con
umiltà”. Ed è proprio per questo che è così attuale. In un tempo
che idolatra l’onnipotenza dell’Io, Einstein ci ricorda che il sapere più profondo è riconoscere
ciò che non possiamo sapere. Einstein,
ebreo, fuggì dalla Germania nazista nel 1933. Negli Stati Uniti divenne simbolo
della libertà intellettuale, ma anche di qualcosa di più: della coscienza
inquieta della scienza. Scrisse la famosa lettera a Roosevelt che diede impulso
al progetto Manhattan. Non partecipò direttamente alla costruzione della bomba
atomica, ma ne sentì il peso per il resto della vita. Pacifista da sempre, negli ultimi giorni
aveva scritto la sua ultima lettera a Bertrand Russell con la quale si
dichiarava d’accordo a firmare un manifesto che esortava tutte le nazioni a
rinunciare alle armi nucleari. Ma la sua battaglia più profonda era contro
un’illusione: quella della separazione. “La nostra disunità è un’illusione
ottica della coscienza”, scriveva. “Il compito della vera religione è
liberarsene.”
Einstein
oggi: AI, atomi e anima
Cosa direbbe Einstein
dell’intelligenza artificiale o del quantum computing? Fox ha un’idea:
“Applaudirebbe al progresso, ma ci avvertirebbe di non farne degli idoli, ha
affermato in un’intervista rilasciata a Wired. ‘Sii creativo — diceva — ma
assicurati che ciò che crei non sia una maledizione per l’umanità’”. Einstein non si fidava dello sviluppo
scientifico-tecnologico se questo non era al servizio della saggezza. Credeva
più nella responsabilità che nel libero arbitrio. E oggi, nel tempo in cui
algoritmi decidono cosa vediamo e chi siamo, la sua voce risuona quasi come una
sveglia: sii parte dell’infinito, non del meccanismo. E non si tratta solo di
metafore. Le sue teorie vivono nei GPS, nelle risonanze magnetiche, nei buchi
neri osservati da LIGO. Ma anche nel modo in cui pensiamo alla realtà: come un
tessuto dinamico, relazionale, mai separato dallo sguardo di chi osserva.
Nel suo libro Fox ricorda che
quando andò a Princeton, Einstein ricevette l’incarico di insegnamento con una
raccomandazione ironica: “Non vi promettiamo di insegnarvi la fisica, ma che vi
divertirete con un uomo straordinario”. E lo era davvero. Suonava il suo amato
violino nei momenti di angoscia. Amava camminare da solo per ore. Parlava
lentamente, ma pensava più velocemente di chiunque. E quando ricevette il
Nobel, lo usò per aiutare la moglie Mileva, da cui era già separato. Era
geniale, sì, ma anche fragile, a volte brusco, sempre in cerca di
qualcosa. Una volta disse: “L’importante
è non smettere mai di fare domande.” Forse è questa la sua vera eredità. Una
fame insaziabile di senso. Un desiderio testardo di verità. E una fede
incrollabile nella bellezza del mistero. La teoria unificata che cercava non è
mai arrivata. La pace mondiale neppure. E la sua spiritualità radicale — così
scomoda, così priva di consolazioni — è ancora ai margini. “Siamo ancora
affamati di nutrimento spirituale”, scrive Fox, “ma viviamo in un’epoca barbara
e materialista”. Forse per questo,
settant’anni dopo, Einstein serve più che mai. Non come icona da stampare sulle
magliette, ma come guida per un futuro più umano. Perché, come dice Fox,
“l’invito di Einstein è continuare a esplorare, scoprire e usare al massimo le
nostre menti… per sentirci parte di un infinito accessibile”.
Sebastiano Catte