Lussemburgo, Berenice: Il Rituale del silenzio e della parola. Scomposizione del Linguaggio nel Teatro di Racine secondo Castellucci

 


di Giovanni Chiaramonte. La messa in scena di Berenice di Racine, con la regia visionaria di Romeo Castellucci al Grand Théâtre Luxembourg, si apre come un mistero liturgico, evocando il rito della messa. Come in quel contesto sacro, la parola non è mai l’unico elemento centrale.

Essa si intreccia con gesti, silenzi e simboli che trasportano lo spettatore in uno spazio infinito, fuori dalla realtà tangibile, simile a ciò che avviene in teatro. Castellucci concepisce il teatro come un rito collettivo, dove l’azione scenica ha un valore trascendente, una sorta di liturgia in cui lo spettatore è chiamato a partecipare in modo profondo e sensoriale.

In questo contesto, la presenza scenica di Isabelle Huppert, mito vivente del teatro, porta lo spettacolo a un livello ancora più elevato. Huppert non è solo un'attrice; con la sua interpretazione minimale ma estremamente evocativa, diventa una figura archetipica che incarna l’essenza stessa del teatro. Ogni sua parola e gesto sembra parte di un rituale teatrale che trascina il pubblico in una dimensione al di là del testo. La sua recitazione, quasi ieratica, amplifica il valore simbolico dell’opera, trasformando Berenice in un’esperienza che è, al contempo, intima e grandiosa, un rito emotivo che tocca le corde più profonde dello spettatore.

Il risultato è una rappresentazione in cui il teatro stesso diventa uno spazio sacro, dove la potenza delle emozioni primarie, l’amore, il sacrificio e il potere, si manifestano attraverso una regia che esalta la presenza umana e il vuoto, il silenzio e la parola.

Castellucci, in questa messa in scena, riesce anche a evocare potentemente le radici della tradizione classica e cristiana che permeano il teatro di Racine. La tragedia classica si basa su un rigore formale e un senso del destino implacabile, che si riflette nella struttura rigida dell’opera e nel linguaggio elevato. Ma Racine, profondamente influenzato dal cristianesimo, introduce anche un senso del sacrificio e della rinuncia che trascende l’eroismo pagano. In Berenice, l’amore non è solo una passione distruttiva, ma diventa una prova spirituale, una forma di ascesi, dove la sofferenza e la privazione sono inevitabili per raggiungere una qualche forma di grazia.

Castellucci rende visibili questi strati simbolici attraverso una regia che gioca con il vuoto e l’oscurità, evocando il senso di attesa e di sospensione tipico della tragedia greca, ma arricchendolo con una dimensione spirituale più vicina al mistero cristiano. Gli elementi scenografici, minimali ma potenti, richiamano i temi della separazione e del sacrificio, come se lo spazio teatrale stesso fosse un altare su cui si consuma una cerimonia dolorosa ma necessaria. Anche l’uso del silenzio e del rallentamento del tempo ricorda la ritualità della liturgia cristiana, dove l’attesa e la contemplazione sono centrali.

Il risultato è una rappresentazione in cui il teatro stesso diventa uno spazio sacro, dove la potenza delle emozioni primarie, l’amore, il sacrificio e il potere, si manifestano attraverso una regia che esalta la presenza umana e il vuoto, il silenzio e la parola. Racine e Castellucci, attraverso la recitazione di Huppert, ci conducono in un viaggio che è allo stesso tempo classico e cristiano, tragico e spirituale, trasformando il teatro in un luogo di riflessione profonda sull’essere umano e il suo destino.

Nella messa in scena di Berenice, Romeo Castellucci riesce a trasformare il linguaggio in un'esperienza sensoriale che va oltre la comprensione razionale. Come il suono che, spingendosi verso l’estremo, si dissolve nell'ultrasuono, rendendosi inudibile ma non per questo privo di senso, così il linguaggio di Racine si sfalda progressivamente, scomponendosi fino a raggiungere i suoi confini più remoti. Le frasi non sono più solo portatrici di significato semantico; diventano un'eco sempre più lontana, una ripetizione che si allontana dal suo centro, perdendo forza e densità fino a trasformarsi in una sorta di ombra linguistica.

Questo processo di decostruzione porta alla luce gli elementi più primitivi del linguaggio: i suoni fonetici primari. Le parole non sono più mezzi per comunicare un pensiero, ma divengono puro suono, pura presenza fisica. Castellucci crea così un doppio strato di linguaggio: da una parte il linguaggio conscio, comprensibile, che si articola attraverso le parole di Racine; dall’altra, un linguaggio sotterraneo, un "inconscio del linguaggio", fatto di silenzi, sospiri, ripetizioni e suoni frammentati. È come se il linguaggio tradizionale si dissolvesse, lasciando emergere un livello più profondo, una comunicazione che non avviene più attraverso il significato razionale, ma attraverso una sorta di vibrazione emotiva e sensoriale.

Questo sdoppiamento crea un effetto di straniamento che amplifica il senso di perdita e separazione che permea l’opera. Non è solo Berenice a essere separata dall’amore di Tito, ma è lo spettatore stesso a essere separato dal linguaggio che conosce, trascinato in un territorio ambiguo, dove le parole si fanno fluide e si smaterializzano, diventando ombre di sé stesse. In questo spazio liminale, il linguaggio diventa sia presenza che assenza, espressione e silenzio, riempiendo lo spettatore di un senso di vuoto e di mistero, dove ciò che è non detto diventa altrettanto significativo di ciò che è pronunciato.

En Français

La mise en scène de Bérénice de Racine, sous la direction visionnaire de Romeo Castellucci au Grand Théâtre de Luxembourg, s’ouvre comme un mystère liturgique, évoquant le rituel de la messe. Comme dans ce contexte sacré, la parole n’est jamais l’élément central unique. Elle s’entrelace avec des gestes, des silences et des symboles qui transportent le spectateur dans un espace infini, hors de la réalité tangible, similaire à ce qui se produit au théâtre. Castellucci conçoit le théâtre comme un rituel collectif, où l’action scénique revêt une valeur transcendante, une sorte de liturgie dans laquelle le spectateur est invité à participer de manière profonde et sensorielle.

Dans ce contexte, la présence scénique d’Isabelle Huppert, mythe vivant du théâtre, élève le spectacle à un niveau encore plus grand. Huppert n’est pas simplement une actrice ; avec son interprétation minimale mais extrêmement évocatrice, elle devient une figure archétypale incarnant l’essence même du théâtre. Chaque mot, chaque geste semble faire partie d’un rituel théâtral qui entraîne le public dans une dimension au-delà du texte. Son jeu, quasi hiératique, amplifie la valeur symbolique de l’œuvre, transformant Bérénice en une expérience à la fois intime et grandiose, un rituel émotionnel qui touche les cordes les plus profondes du spectateur.

Le résultat est une représentation dans laquelle le théâtre lui-même devient un espace sacré, où la puissance des émotions primaires — l’amour, le sacrifice et le pouvoir — se manifeste à travers une mise en scène qui exalte la présence humaine, le vide, le silence et la parole.

Castellucci, dans cette mise en scène, parvient également à évoquer avec force les racines de la tradition classique et chrétienne qui imprègnent le théâtre de Racine. La tragédie classique repose sur une rigueur formelle et un sens du destin implacable, qui se reflètent dans la structure rigide de l’œuvre et son langage élevé. Mais Racine, profondément influencé par le christianisme, introduit également une notion de sacrifice et de renoncement qui transcende l’héroïsme païen. Dans Bérénice, l’amour n’est pas seulement une passion destructrice, mais devient une épreuve spirituelle, une forme d’ascèse où la souffrance et la privation sont inévitables pour atteindre une certaine forme de grâce.

Castellucci rend visibles ces couches symboliques à travers une mise en scène qui joue avec le vide et l’obscurité, évoquant le sens de l’attente et de la suspension typique de la tragédie grecque, tout en l’enrichissant d’une dimension spirituelle plus proche du mystère chrétien. Les éléments scéniques, minimaux mais puissants, évoquent les thèmes de la séparation et du sacrifice, comme si l’espace théâtral lui-même était un autel où se déroule une cérémonie douloureuse mais nécessaire. L’utilisation du silence et du ralentissement du temps rappelle également la ritualité de la liturgie chrétienne, où l’attente et la contemplation sont centrales.

Le résultat est une représentation dans laquelle le théâtre lui-même devient un espace sacré, où la puissance des émotions primaires — l’amour, le sacrifice et le pouvoir — se manifeste à travers une mise en scène qui exalte la présence humaine, le vide, le silence et la parole. Racine et Castellucci, à travers l’interprétation d’Huppert, nous conduisent dans un voyage à la fois classique et chrétien, tragique et spirituel, transformant le théâtre en un lieu de réflexion profonde sur la condition humaine et son destin.

Dans la mise en scène de Bérénice, Romeo Castellucci parvient à transformer le langage en une expérience sensorielle qui dépasse la compréhension rationnelle. Comme un son qui, en atteignant son extrême, se dissout dans l’ultrason, devenant inaudible mais non dénué de sens, le langage de Racine se défait progressivement, se décomposant jusqu’à atteindre ses frontières les plus lointaines. Les phrases ne sont plus simplement porteuses de sens sémantique ; elles deviennent une écho de plus en plus lointain, une répétition qui s’éloigne de son centre, perdant en force et en densité jusqu’à se transformer en une sorte d’ombre linguistique.

Ce processus de déconstruction révèle les éléments les plus primitifs du langage : les sons phonétiques primaires. Les mots ne sont plus des moyens de transmettre une pensée, mais deviennent un pur son, une pure présence physique. Castellucci crée ainsi une double couche de langage : d’une part, le langage conscient, compréhensible, qui s’articule à travers les mots de Racine ; d’autre part, un langage souterrain, un « inconscient du langage », fait de silences, de soupirs, de répétitions et de sons fragmentés. C’est comme si le langage traditionnel se dissolvait, laissant émerger un niveau plus profond, une communication qui ne passe plus par le sens rationnel, mais par une sorte de vibration émotionnelle et sensorielle.

Cette scission crée un effet de distanciation qui amplifie le sentiment de perte et de séparation qui imprègne l’œuvre. Ce n’est pas seulement Bérénice qui est séparée de l’amour de Titus, mais le spectateur lui-même qui est séparé du langage qu’il connaît, entraîné dans un territoire ambigu où les mots deviennent fluides et se dématérialisent, devenant des ombres d’eux-mêmes. Dans cet espace liminaire, le langage devient à la fois présence et absence, expression et silence, remplissant le spectateur d’un sentiment de vide et de mystère, où ce qui n’est pas dit devient aussi significatif que ce qui est prononcé. Giovanni Chiaramonte.

In English

by Giovanni Chiaramonte

The staging of Berenice by Racine, directed by the visionary Romeo Castellucci at the Grand Théâtre Luxembourg, unfolds like a liturgical mystery, evoking the rite of the mass. As in that sacred context, words are never the only central element. They intertwine with gestures, silences, and symbols that transport the audience into an infinite space, beyond tangible reality, much like what happens in theater. Castellucci conceives theater as a collective ritual, where stage action takes on a transcendent value, a sort of liturgy in which the spectator is called to participate in a profound and sensory manner.

In this context, the stage presence of Isabelle Huppert, a living legend of the theater, elevates the performance to an even higher level. Huppert is not just an actress; with her minimalist yet highly evocative interpretation, she becomes an archetypal figure embodying the very essence of theater. Every word she speaks, every gesture she makes, feels like part of a theatrical ritual that transports the audience to a dimension beyond the text. Her performance, almost hieratic, amplifies the symbolic value of the work, transforming Berenice into an experience that is both intimate and grandiose, a deeply emotional rite that resonates with the audience’s innermost feelings.

The result is a performance where the theater itself becomes a sacred space, where the power of primary emotions—love, sacrifice, and power—manifests through a direction that emphasizes human presence, emptiness, silence, and words.

In this staging, Castellucci also powerfully evokes the classical and Christian traditions that permeate Racine’s theater. Classical tragedy is built upon formal rigor and an implacable sense of fate, reflected in the rigid structure of the play and its elevated language. Yet Racine, profoundly influenced by Christianity, introduces a sense of sacrifice and renunciation that transcends pagan heroism. In Berenice, love is not merely a destructive passion but becomes a spiritual trial, a form of asceticism, where suffering and deprivation are inevitable to reach a form of grace.

Castellucci makes these symbolic layers visible through a direction that plays with emptiness and darkness, evoking the sense of anticipation and suspension typical of Greek tragedy, yet enriching it with a spiritual dimension closer to Christian mystery. The scenographic elements, minimal but powerful, recall themes of separation and sacrifice, as if the theatrical space itself were an altar on which a painful but necessary ceremony is performed. The use of silence and the slowing down of time also evoke the rituality of Christian liturgy, where waiting and contemplation are central.

The result is a performance in which the theater itself becomes a sacred space, where the power of primary emotions—love, sacrifice, and power—manifests through a direction that elevates human presence, emptiness, silence, and speech. Through Huppert’s performance, Racine and Castellucci guide us on a journey that is both classical and Christian, tragic and spiritual, transforming the theater into a place for deep reflection on the human condition and its destiny.

In the staging of Berenice, Romeo Castellucci succeeds in transforming language into a sensory experience that goes beyond rational comprehension. Just as sound, when pushed to its extreme, dissolves into ultrasound—rendering it inaudible yet not devoid of meaning—so does Racine's language progressively unravel, decomposing until it reaches its most distant boundaries. The phrases are no longer simply bearers of semantic meaning; they become an ever-distant echo, a repetition that drifts away from its center, losing strength and density until it turns into a kind of linguistic shadow.

This process of deconstruction brings to light the most primitive elements of language: the primary phonetic sounds. Words are no longer tools for conveying thought, but become pure sound, pure physical presence. Castellucci thus creates a dual layer of language: on one hand, the conscious, comprehensible language that is articulated through Racine’s words; on the other, a subterranean language, an “unconscious of language,” made up of silences, sighs, repetitions, and fragmented sounds. It is as if traditional language dissolves, allowing a deeper level to emerge—a communication that no longer occurs through rational meaning, but through a kind of emotional and sensory vibration.

This split creates an effect of estrangement, amplifying the sense of loss and separation that pervades the play. It is not only Berenice who is separated from Titus’s love; the audience itself is separated from the language it knows, drawn into an ambiguous territory where words become fluid and dematerialize, turning into shadows of themselves. In this liminal space, language becomes both presence and absence, expression and silence, filling the spectator with a sense of emptiness and mystery, where what is unsaid becomes just as meaningful as what is spoken.

Fattitaliani

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