Ecco “Scisma”, il nuovo libro di Ilaria Palomba pubblicato da Les Flâneurs Edizioni, in distribuzione da settembre 2024.
Un libro emozionante, “Scisma” è una serie di componimenti
poetici magistralmente scritti da Ilaria Palomba durante la sua lunga degenza
al CTO della Garbatella. Un diario emozionante, scritto dopo il risveglio da un
coma. Sono 188 i giorni di degenza raccontati da una penna diretta e caparbia.
Sono moltissimi gli argomenti affrontati dall’autrice, ma tra i più importanti
spiccano certamente il suicidio e la ripresa della vita. Un tunnel oscuro
presentato da figure retoriche e passaggi emozionanti. L’autrice si sente
“residuo” di se stessa, un vortice esistenziale dove quasi non sembra esistere
un prima dell’incidente.
Molte le domande che l’autrice pone a sé stessa e che, come un
eco, arrivano fino all’orecchio del lettore: “Potrò mai essere quella di
prima?” “Specchiati nel mostro, chiedigli perché?”. Interrogativi emozionanti,
che pagina dopo pagina regalano un testo ricco di significato. Un viaggio
dentro sé stessi, dove la spaccatura dell’esperienza apre le porte al dolore e
alla vita futura. Sullo sfondo, il sentimento dell’amore, capace di fare a
brandelli la solitudine. L’esperienza dell’ospedale, la voglia di tornare a
casa dai propri libri e nelle proprie mura, l’incomunicabilità tra corpo e
mente, la necessità di ricominciare da capo ogni cosa.
Questo e molto altro nel nuovo libro poetico di Ilaria Palomba
che tende la mano ai “sopravvissuti” e che, a voce piena, racconta la sua
esperienza di dolore e speranza, reggendosi sulle pareti di un tunnel oscuro.
-Quando è nata in lei l’esigenza di scrivere questo libro?
“Nel suicidio vi è una sorprendente intenzione di abolire
l’avvenire come mistero della morte: in un certo senso ci si vuole uccidere
affinché l’avvenire non abbia più segreti, per renderlo chiaro e intellegibile,
perché cessi di essere l’oscura riserva della morte indecifrabile. In questo
senso, il suicida non è colui che accoglie la morte, ma è piuttosto colui che
vorrebbe sopprimerla come la sua essenza, vorrebbe renderla superficiale, priva
di spessore e pericolo.” Maurice Blanchot, Lo spazio letterario (Il saggiatore)
Queste parole in me fanno tana. Scisma nasce con l’esigenza di scendere nell’impersonale di cui parlano Weil e Blanchot. La mia è stata un’esperienza tremenda. La persona si uccide perché non è stata vista, dice Bellocchio in Marx può aspettare. Sentivo di non potermi riscattare mediante la letteratura, sentivo la mia voce muta, mi sembrava di non avere scelta. Anche quando scrivevo Scisma non avevo scelta, dovevo farlo. Ero in unità spinale, non potevo usare le gambe, non sapevo quando sarei uscita. Poi ci sono tornata - sul testo - diciannove volte finché non è diventato un poema.
-Chi è stata la prima persona che ha letto il libro finito e cosa le ha detto in merito?
Luigia Sorrentino e Andrea Pedicini hanno letto Scisma per primi e in tutte le sue stesure, e poi Matteo De Simone e Sara De Simone, nella versione in cui ancora si chiamava Rinuncia al tuo nome. Ora è altro però; si è trasformato da diario ospedaliero in un poema sul suicidio. C’è un costante dibattersi della voce interna. Sono i miei temi. I miei temi più brulicanti. Ricordo quando leggevo i Demoni di Dostoevskij a diciott’anni, stando dalla parte di Kirillov. Perché o stai dalla parte della hybris, che poi io definivo anarchia, o stai dalla parte di Dio. O Dio non esiste, allora sei padrone della tua vita e della tua morte, oppure devi ammettere la possibilità dell’esistenza di una forza superiore a cui devi tutto, e non sei libero, né mai lo sarai. Tutto ciò riemerge nell’esperienza diretta ma anche nella lettura dei testi di Blanchot.
-Perché ha scelto proprio il titolo “Scisma”? Cosa rappresenta per lei tale titolazione?
Lo scisma è la frattura: fratture multiple scomposte nel corpo e nella mente, lesione spinale, quindi squarcio tra i nervi, frattura della mente che non accetta la mutilazione. Eppure, la mutilazione è iniziata molto prima della lesione spinale, la vita si scindeva: “la scissione del sole in piccoli soli neri”, scrive Alejandra Pizarnik in una poesia dedicata a Cristina Campo. Quando si apre lo squarcio dei multipli siamo nella totalità panica che può essere una fatalità infera. Nella vita reale, non allucinatoria, non possiamo incarnare tutte le cose, dobbiamo scegliere. L’onnipotenza porta allo schianto. Coma. Frattura. Scisma. Cosa resta in me nella paralisi?
-Tra i suoi miti letterari vi troviamo Pizarnik, Rosselli, Celan, Metz. Qual è la cosa che più ama di tali autori? Qual è l’opera che più apprezza e perché?
Alejandra Pizarnik è la mia gemella letteraria, una sorella
dell’ombra e dell’insonnia, fin da quando scoprii la prima silloge tradotta in
italiano da Claudio Cinti e pubblicata da Crocetti: La figlia dell’insonnia. Ho
compreso però fino in fondo la nostra affinità così radicale quando ho letto il
primo volume dei suoi Diarios tradotto in italiano: Il ponte Sognato (La noce
d’oro). Lì ho compreso quanto le nostre esperienze di vita e i nostri pensieri
sulla vita e sulla morte fossero speculari.
Amelia Rosselli, per me la più grande poetessa italiana di ogni
tempo, ha rivoluzionato il verso libero, lo ha reinventato conferendogli però
un rigore e una musicalità tale da diventare un modello affinché si possa
parlare di poesia. Un pensiero non è poesia, un racconto non è poesia, non lo è
una frase e neppure un verso. La poesia nasce dove nella parola ritroviamo la
musicalità del passato con una spinta verso il mutamento futuro. La poesia è
musica. Questo insegnamento lo devo a La libellula di Amelia Rosselli, a quel
dissipa tu se tu puoi, a quell’anafora martellante.
Celan l’ho sempre letto nella traduzione di Bevilacqua, quindi
una versione intrisa di grande lirismo, solo da poco sto cercando di recuperare
tutte le altre traduzioni, in cui il suo verso risulta più scabro, più aspro.
In ogni caso, di Celan ho amato il lirismo: dice vero chi dice ombra.
Thierry Metz viveva sdoppiato: da una parte il poeta, dall’altra il muratore. Le sue poesie e le sue prose poetiche si avviluppano nella fatica di esistere, e se ne carpisce il peso, ma anche la leggiadria; era pur sempre un francese! La struttura di Scisma è ispirata alla struttura de L’uomo che pende: racconto lirico dei giorni da lui trascorsi in una clinica per disintossicarsi dall’alcol.
-Il suo libro parla di suicidio, disabilità, ospedalizzazione, psichiatrizzazione, e molto altro. Quanto è importante secondo lei parlare ai giorni nostri di tali tematiche? Cosa si sente di dire a chi vive una situazione di disagio come lei stessa ha attraversato?
Questo è il primo di due libri sul suicidio scritti dopo il
trauma; il secondo è un romanzo che chiude quella che blanchottianamemte
definisco la tetralogia del disastro: Disturbi di luminosità, Brama, Vuoto, e
l’ultimo di cui ho solo un titolo provvisorio, con l’auspicio di trovare un
editore. Il suicidio è il tema portante della mia ricerca, come anche il
disagio psichico. Dunque, qui passa il grande spavento. La chiusura immediata
del libro. Non è forse chiaro alla stragrande maggioranza delle persone che il
disagio di cui parlo è anche loro. Più del 70% dei cittadini di questa bislacca
nazione assume psicofarmaci, in America i numeri sono addirittura più alti. Mi
chiedo se in Asia o in Africa sia così, suppongo di no. Non solo perché lì il
disagio è marcatamente materico più che psichico, ma perché per tradizione e
cultura la psichiatria non ha avuto modo di radicarsi nei luoghi in cui la cura
passa attraverso la religione, l’ascesi, in Asia, o un misticismo ctonio e
eminentemente animista, in Africa; oggi le cose stanno cambiando perché il
capitalismo è diventato ubiquitario, e porta con sé ogni nevrosi, ogni psicosi,
ogni disturbo di personalità. Il trionfo della psichiatria in Occidente è
sintomo della perdita di contatto con le nostre tradizioni religiose, da un
lato, e con la capacità di fare una vera lotta di classe, dall’altro. La
psichiatria ha sostituito la polizia. Possiamo morire di fame, lavorare gratis
tutta la vita ma non esistono rivoluzioni possibili, bisogna piuttosto
rivolgersi alla ASL di riferimento per farsi imbottire di parole vuote,
definite diagnosi, e farmaci anestetizzanti, definiti antipsicotici. È così che
hanno distrutto il libero pensiero e quel residuo di rivolta che poteva
appartenere a un Occidente ormai morto. Ne vediamo gli spettri.
Cosa posso consigliare a chi è stato diagnosticato borderline, per esempio? Studiare filosofia, studiare psicoanalisi, non gettarsi nelle braccia della psichiatria. Siamo la risorsa più importante per cambiare il mondo, il nostro disagio è la punta dell’iceberg di una società distrutta, voltiamole le spalle, costruiamo falansteri fuori dalla società civile (che non è per nulla civile).
-Qual è il ricordo più “piacevole” del periodo di degenza al CTO della Garbatella?
Dice bene, vi sono stati anche momenti piacevoli. Ho stretto amicizie profonde. La domenica andavamo in giro per tutto l’ospedale in carrozzina, specialmente io e l’amico F., e poi per un periodo anche in gruppo. Uscire di lì e essere restituita alla società è stato atroce. Di certo stavo meglio in ospedale. Trascorrevo le giornate a letto a leggere, nonostante i dolori artrosici e neuropatici, ero fuori dal furioso ritmo del mondo, che dopo il mio ritorno mi ha accolta a calci in faccia, per primi coloro che volevano farmi firmare contratti da diecimila euro mentre ero ricoverata e a malapena potevo muovere le braccia, non c’è che dire. Cerco sempre di farmi ricoverare di nuovo e restare lì quanto più possibile, non per i diecimila euro, anche se mi sarebbero utili, ma per essere oltre la linea di confine in cui nessuno può chiederti nulla. Il fuori mi disgusta ormai completamente.
-Il suo libro è in qualche maniera il racconto di una “sopravvissuta”. Cosa le ha lasciato quest’esperienza addosso?
Il mio libro è una riflessione filosofica in versi sul senso della vita e della morte, sul libero arbitrio, e sui piani celesti – luoghi del tutto allucinatori. Il mio libro non è la realtà, è una grande allucinazione che prende il ritmo di una composizione dodecafonica. Mi ha lasciato la fatica di diciannove stesure. Fermare ciò che ho potuto prima di dimenticare. Oggi dimentico quasi tutto, è una sciocca strategia di difesa inconscia.
-Nel suo testo ammette di essersi sentita “residuo” di essa stessa. In certi momenti si sente ancora oggi così? Qual era il sentimento predominante di quel periodo?
Di quel periodo non ricordo altro se non ciò che sono riuscita a trasformare in scrittura (poesia o prosa, a seconda dei casi). Non ho quasi più ricordi. Credo però sia importante parlare di disabilità e disabilitare il mostro che avvolge tale parola e la trasforma in stigma. Disabile non significa nulla. Vada a parlare con le persone che hanno perso l’uso delle gambe, delle braccia, o della ragione. Saranno persone diverse, ciascuna con una propria storia, nessuna categoria le racchiude. Io preferisco parlare di persone, più che di abili e disabili. Attenzione, perché negli apparentemente abili spesso si annidano frustrazioni e grettezze tali da renderli ai miei occhi disabili. Ciascuno è una persona, qualcuno sa essere anche umano, altri no, e gliel’assicuro, quelli sono fuori dagli ospedali, i disumani.
-Quali sono i suoi programmi per il futuro? Cosa si aspetta dal domani?
Assolutamente nulla. C’è da aspettarsi qualcosa più? Ciò che arriva lo accolgo con gioia, se buono; fingo di non vederlo, se cattivo. Non mi aspetto nulla. Se qualcosa arriverà sarà destinale, tutto ciò che non arriverà mi farà dare ragione all’Ilaria che cercava di fuggire da un mondo di cui aveva compreso le dinamiche.