Il M° Carlo Goldstein dirige “Rivoluzione e Nostalgia” alla Monnaie di Bruxelles. L'intervista di Fattitaliani



Rivoluzione e Nostalgia: fino al 7 aprile in scena alla Monnaie di Bruxelles due performance che formano un nuovo dittico con i migliori momenti musicali delle opere giovanili di Giuseppe Verdi e raccontano la storia di tre amici in due momenti chiave della loro vita: gli anni turbolenti dopo il maggio 1968 e il loro ricongiungimento quarant'anni fa. Dirige l'orchestra il Maestro Carlo Goldstein, intervistato da Fattitaliani.

Maestro, abbiamo visto un nuovo Giuseppe Verdi, oserei dire…
Un progetto molto particolare della Monnaie, un dittico basato su tutte le opere del primo Verdi e che precedono la famosa Trilogia, un pastiche incentrato però su una nuova drammaturgia creata ad hoc, ricavandola il più possibile dalla musica, rimanendo cioè fedeli alla musica. Insomma, non si è voluto fare un semplice gala di arie verdiane, ma creare un’altra opera in qualche modo. Dall’idea del soprintendente De Caluwe (intervista di Fattitaliani) c’era di coinvolgere altri media, tipici di un teatro più contemporaneo, veri e propri video registrati durante il periodo di prova, autentici set cinematografici funzionali alla narrazione della storia, alla creazione di questa drammaturgia. Una serata verdiana classica, soprattutto la prima, nello spirito ma nei mezzi aggiornata a elementi di un teatro contemporaneo; la seconda serata è più sperimentale, di teatro lirico, non forse in senso stretto operistico, in cui il linguaggio verdiano è stato portato in una dimensione narrativa e più emotivo rispetto alla prima serata. Mi sembra che il pubblico l’abbia colto.


Nella prima serata abbiamo assistito alla messa in scena dello spirito del movimento studentesco, nella seconda abbiamo riflettuto sugli anni di piombo con tensione e intelligenza. Credo sia la prima volta che in un teatro d’opera si fa un lavoro così approfondito sul terrorismo, no?
Si, con il regista Krystian Lata è stato un lavoro a quattro mani durato un anno e mezzo prima dell’inizio della produzione, in cui si è creato questo dittico, mettendo insieme le esigenze drammaturgiche con quelle musicali. Non posso dire che la drammaturgia ha guidato la musica o che la musica abbia guidato la drammaturgia: è stato molto creativo e stimolante per me lavorare con questo giovane regista di talento. L’idea del Sessantotto è stata molto buona: Verdi rappresenta il Risorgimento che insieme, oserei dire, alla Resistenza durante la Seconda guerra mondiale, e al Sessantotto sono quei momenti in cui lo spirito nazionale si è unito, coagulato attorno a temi rimasti nell’identità collettiva; per questo, abbiamo pensato che fosse un tema non solo di attualità ancor oggi, come il terrorismo, la violenza, l’utopia di una società migliore, i conflitti fra le generazioni, temi tipici verdiani, ma anche fosse un periodo storico verdiano, che comunque era passibile di una narrazione verdiana. Da qui l’idea di raccontare la storia di questi ragazzi giovani che sono tra di loro in vari rapporti sociali, politici e affettivi com’è nella gioventù e che poi si trovano in una spirale di violenza condotti fino al dramma, all’inevitabile che avviene alla fine della prima serata. In “Nostalgia” questi medesimi protagonisti quarant’anni dopo si ritrovano con il disincanto, la disillusione dell’età avanzata, e riflettono sugli entusiasmi, gli slanci e le utopie di un’età che non c’è più a livello anagrafico individualmente e neanche a livello storico con quel tipo di partecipazione collettiva e di slancio verso il futuro che c’è stato in quegli anni. “Nostalgia” diventa una serata musicalmente più psicologica, interiore e più emotiva nel finale.


Siete partiti già con una visione così chiara?
Siamo partiti a livello pratico con l’idea del dittico e il regista ha identificato queste due parole d’ordine, Rivoluzione e Nostalgia, che io ho trovato molto adatte alla poetica verdiana. Verdi è un uomo sempre con lo sguardo in avanti e anche indietro: torniamo al passato che sarà un progresso, diceva in un modo idiomatico. Da un lato è stato l’uomo della rivoluzione di quegli anni, ma è stato poi il padre della patria nell’ultima parte della sua vita: c’è dunque nell’arco verdiano questo slancio in avanti e la riflessione retrospettiva. Da lì l’idea del Sessantotto, e poi i momenti drammaturgici, uno dopo l’altro, sono stati veramente creati a quattro mani: si vedeva quali arie e le scene avrebbero potuto funzionare, talvolta dettava legge la drammaturgia, talvolta la musica e siamo stati bravi con il regista nell’ascolto reciproco, nel fidarci l’uno dell’altro.

Qual è il segreto di un buon conduttore d’orchestra verdiano?
Purtroppo non lo so (sorride, ndr). In questo mestiere più si va avanti cogli anni, meno certezze ci sono; più ci sono esperienze, aumentano le cose che si sanno, ma aumentano anche le domande. Quello che posso dire è che nella musica di Verdi, solo apparentemente semplice, è ispirata a sentimenti molto complessi, profondi e sottili, il traguardo ultimo per un interprete e per un esecutore, è la semplicità. Il grande esecutore verdiano, direttore o cantante che sia, riesce a pervenire a quella semplicità che è propria della schiettezza dell’antiretorica verdiana. Questa è la cosa più difficile, il manierismo è facile, il presente indicativo è difficile in Verdi: arrivare a quello è il massimo risultato. In questo senso, una buona concertazione procede attentamente nei dettagli, ma direi per sottrazione: ci deve essere una prospettiva giusta e definitiva del tutto e poi i dettagli cadranno nella giusta prospettiva. Se invece si parte dai dettagli, forse manca la stella polare. Giovanni Chiaramonte.   

Fattitaliani

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