Intervista a Nilla Zaira D’Urso: "Arte Contemporanea senza lattosio"

Benvenuti all'interno di un viaggio unico nel mondo dell'arte contemporanea, che si snoda tra i corridoi dei centri commerciali, le bancarelle di cibi fast food, le manicure più audaci della Nail Art e le sale operatorie della chirurgia estetica. Il libro "Arte Contemporanea senza lattosio" di Nilla Zaira D’Urso, pubblicato da Nino Bozzi Editore, si propone come una guida stravagante e drammatica per riconoscersi nel tessuto caotico delle nostre abitudini quotidiane, abbattendo la barriera tra noi e le opere d'arte contemporanea.

In questa intervista, l'autrice ci svela il suo approccio provocatorio e la sua visione del rapporto tra il quotidiano e l'arte contemporanea, offrendoci una prospettiva unica su come affrontare le sfide del nostro tempo attraverso l'arte.

Puoi condividere il percorso che ha portato alla creazione del libro? Come hai sviluppato l'idea iniziale e come è cresciuta nel corso del tempo?

L’idea del libro era già presente da un po’ di anni, annottando riflessioni e spunti ed essendo una lettrice onnivora di saggistica, ho sempre avuto chiara l’idea che avrei scritto un saggio dal carattere divulgativo e con una scrittura semplice - mi auguro sia così - e non arzigogolata.

L’idea iniziale è arrivata dall’osservazione continua di tutto ciò che mi sta intorno e da continue mie riflessioni sull’arte contemporanea.

Ho iniziato a rendermi conto che le prime idee sul libro arrivavano quando facevo la spesa e mi trovavo davanti a un qualsiasi scaffale di supermercato. In quei momenti erano chiari alla mente analogie e associazioni con alcune delle caratteristiche dell’arte del nostro tempo delle quali parlo nel libro.

Così, ho sentito l’urgenza di dare forma alle parole e creare una narrazione diversa per dare spazio a concetti come serialità, assemblaggio, selfie, piatti gourmet ma partendo dal concetto di ready made di Marcel Duchamp.


Nel tuo libro, analizzi le espressioni delle arti visive nel XXI secolo, sottolineando come siano immerse nelle parole, nei significati, nelle mode e nelle tendenze della società. Quali sono alcune delle principali osservazioni che hai fatto riguardo a come l'arte contemporanea si intreccia con il tessuto della nostra cultura e della nostra società?

Intanto, l’arte non può prescindere dalla collocazione storica - sociale del nostro tempo e questa è una premessa fondamentale per analizzarne tutti gli aspetti.

Personalmente, ho analizzato e ragionato su alcune caratteristiche che hanno riguardato parte della storia dell’arte, dal Novecento ai nostri giorni in quella parte di mondo Occidentale, e sono partita da vari ragionamenti come quello della “dematerializzazione” ovvero le immagini che esistono dentro un file o in uno smartphone, tablet o pc senza un corrispettivo fisico di ogni singola immagine e al contempo ciò che viene considerato il corpo disperso delle arti visive.

L’arte che da una parte ha perso da secoli la sua considerazione sacra e dall’altra, già da più di un secolo,

è manifestazione multiforme, è “libertà di significare” ma è anche arte digitale e virtuale al punto che non può essere più identificata e associata a un unico oggetto fisico. Può anche venire il dubbio che non ci sia più il corpo dell’arte e che sia rimasta l’idea di essa!

Poi ho riflettuto su alcune analogie che legherebbero il modo in cui molte installazioni vengono presentate alla maniera in cui vengono proposti, nella dimensione commerciale, gli oggetti del nostro tempo.

E sono arrivata alla considerazione che viviamo in un continuo assemblaggio di oggetti e siamo dentro l’estetica della serialità: serie televisive, interfaccia ripetitiva dei social, serialità di negozi nei centri commerciali, esposizione seriale di smalti in un centro estetico, ecc.

Queste due parole ovvero “serialità” e “assemblaggio”, citate anche prime, sono termini chiave nella semiotica dell’arte di questo secolo.

Viviamo anche nell’epoca degli imballaggi se pensiamo agli acquisti fatti online e ai pacchi che viaggiano continuamente. Quindi, quando vedo un oggetto imballato penso ai lungimiranti artisti Christo e Jeanne Claude che hanno immortalato l’estetica dell’impacchettare prima ancora che questa definisse una tendenza del nostro tempo.


Hai descritto il tuo libro come uno sguardo sul presente, esplorando dalle pratiche quotidiane ai profili social, alle nostre ossessioni. Qual è il messaggio principale che speravi di comunicare ai lettori riguardo al modo in cui viviamo oggi e come questo si riflette nell'arte contemporanea?

Il mio intento è quello di risvegliare un pensiero critico su ciò che ci circonda e ricordare che tutti noi siamo ciò che mangiamo e ciò che pensiamo. E se moltissime persone ancora restano basite davanti a certe opere d’arte contemporanea alle stesse dico di restare basiti davanti agli oggetti-alimenti commerciali di qualsiasi supermercato. Certamente, c’è moltissimo caos in questo settore artistico perché non tutto può essere presentato come arte e alla stessa maniera, aggiungo, non tutto può essere proposto come cibo con o senza zuccheri aggiunti.

Io resto ancora allibita davanti a operazioni artistiche scarne, denutrite e senza pelle e senza un reale messaggio, nonostante cifre milionarie, e resto perplessa davanti a confezioni di cibo di plastica. Le due cose sono assolutamente collegate ed è per questo motivo che dico nel libro che si è azzerata la distanza con l’oggetto artistico al punto da dire che l’arte oggi è più simile a un hot dog con patatine fritte ketchup e maionese.

Quindi, ai miei lettori dico di sentire con gli occhi e guardare con il pensiero e avere cura di ciò che mangiano!!


Nella tua visione provocatoria, hai scelto di presentare visioni e foto del quotidiano anziché immagini di opere d'arte. Come pensi che questa scelta influenzi l'esperienza del lettore e come hai selezionato specifiche immagini per rappresentare il mondo contemporaneo nel tuo libro?

Credo che questa scelta possa portare immediatamente il lettore a un ulteriore collegamento con il suo reale, con immagini che codificano un modus vivendi del mondo.

Come ho già detto, se manca l’oggetto fisico che identifica l’arte e se viviamo l’epoca della spersonalizzazione e della dematerializzazione, sono naturalmente portata a non identificare il mio ragionamento con una immagine artistica di una sola opera o di più opere perché non ne avrebbe senso.

Ho voluto raccontare l’articolarsi di un modo di intendere e ragionare sui processi artistici da identificare nel simbolico carrello di spesa di un fruitore-utente del nostro tempo.

Quindi, immagini di fette di carne cruda nonostante io sia vegetariana, di unghie smaltate, di smartphone, scaffali di supermercati, seni rifatti che decodificano parte del XXI secolo


Ci sono passaggi specifici nel libro che ritieni particolarmente significativi o personali? Puoi condividere un momento che rappresenti bene la tua visione artistica e il messaggio chiave del libro?

Sicuramente quando mi riferisco all’installazione “I bambini ci guardano” di Cattelan del 2004 e il riferimento agli allevamenti intensivi e alla brutale crudeltà che permea parte dell’umanità, riferendomi ad alcuni lavori di Kapoor, esposti al Macro nel 2017.

Rispetto a Cattelan, ho scelto di parlare di questa sua opera perché questo mondo sta uccidendo i bambini in vari modi: nelle guerre e nel Mediterraneo ed è atroce, ingiustificabile. Inoltre, in modo silente ovvero senza le esplosioni della guerra, i bambini sono spesso sui social come se fossero influencer e questa maniera di adultizzarli da un lato e dall’altro di essere parte di proiezione narcisistica genitoriale è terrificante. Ma anche tutta l’alimentazione di plastica che viene offerta ai più piccoli è responsabilità di questo mondo, di tutti noi adulti.

Insomma, la realtà ha una barbarie superiore alla stessa installazione di Cattelan che considero comunque necessaria.

Invece, con alcune opere di Kapoor alle quali faccio riferimento, mi connetto a quella parte di mondo disumano e violento di cui anche gli allevamenti intensivi sono una macabra e vergognosa testimonianza e lo dico da vegetariana.

Rispetto alla mia visone dell’arte dico che non viviamo più le epoche dei grandi movimenti artistici ma anche politici. C’è chi dice che l’ultimo movimento sia stato quello della Pop Art, chi sostiene invece quello della Transaavanguardia ma entrambi sono esempi di un processo di frammentazione delle idee e dell’arte iniziato nella seconda metà del secolo scorso.

Davanti a questo scenario, dico in modo umoristico che il primo grande movimento di stili – movimento inconsapevole sul piano delle idee ma consapevole sul piano delle cifre milionarie - oggi è dato dalla medicina estetica, che non è arte appunto.

Ritengo, però, che dalla Digital Art e dall’arte virtuale – anche quella a realtà aumentata – possono arrivare segni, visioni oniriche di un immaginifico dimenticato anche se non vi è un movimento preciso e strutturato come siamo abituati a intenderlo.

L’arte, forse, ci indica che qualcosa di essa resterà per sempre ai margini. Un processo di Big Bang l’ha già colpita ai primi del Novecento ed è inevitabile che ci sia ancora in corso un processo di totale dispersione del concetto di arte, che serve a ricordarci di essere umani, fragili ed empatici in un mondo in cui si celebra solo il successo e l’idea ossessiva della perfezione; a rievocare connessioni con l’invisibile, quel mistero che circonda le cose del mondo senza il quale saremo tutti involucri scheletrici e famelici, quasi zombie senza più entusiasmo.


Quali progetti hai in cantiere per il prossimo futuro?

Scrivere, scrivere, scrivere per raccontare ancora l’arte contemporanea e non solo. Continuare con la mia attività legata alla natura con Nake Residenza Artistica e poi ci sono dei progetti di scrittura ma non ne posso ancora parlare.


Fattitaliani

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