Assistere alla rappresentazione dello spettacolo "Zonder" in scena al Théâtre National di Bruxelles è senza dubbio un'esperienza.
Lo spettatore sul palco assiste a una serie di movimenti prima in silenzio poi accompagnati da musiche accennati dagli stessi danzatori e cerca all'inizio di capirne il senso, di trovarne il filo logico.
Pensa dunque che possa trattarsi di un corteggiamento, la riproposizione di atteggiamenti degli animali in natura, la narrazione di un episodio in particolare. E invece, no; oppure sì.
È proprio su questo che si fonda l'idea della coreografa Ayelen Parolin: perché dotare obbligatoriamente la coreografia e la performance di un senso preciso, rigido, consequenziale, logico con i tempi di successione che si possono riscontrare e sperimentare in qualsiasi pièce teatrale?
E, infatti, ad un certo punto, lo spettatore smette di cercare un denominatore fra i movimenti scenici e incomincia a godersi davvero la perfetta coordinazione, la bravura e la simpatia mimica dei tre giovani artisti. Si muovono in continuazione, sudano, saltano, sgambettano, e gradualmente cominciano fisicamente a smontare la scena anzi a distruggerla tagliando, rompendo, abbattendo i pannelli dello sfondo per poi far comparire all'improvviso un sipario bianco davanti al quale imperterriti continuano a danzare e ad accennare brani famosi (dalla Marcia nuziale a The final countdown).
Sebbene il senso non vada cercato e trovato, a me piace pensare alla fatica e alla reinvenzione di uno spettacolo teatrale che ogni sera si crea, si svolge, finisce per poi rinascere il giorno seguente. Mi piace pensare che questa destrutturazione della scena è proprio tipica di chi fa il mestiere di artista: mai sentirsi arrivato, mettersi sempre in discussione, fare e rifare e ripetere e riprovare... all'infinito.
Cinquantacinque minuti di puro godimento e di sano coinvolgimento.
Stasera l'ultima replica. Giovanni Zambito.
Foto di Stanislav Dobak