Lara Balbo e Daniele Locci sono stati i protagonisti di Sconfitti, andato in scena al Teatro Lo Spazio dal 20 al 22 ottobre. Per la rubrica Proscenio, Fattitaliani ne ha intervistato l'autore e regista Riccardo Lignelli.
In che cosa "Sconfitti" si contraddistingue rispetto ad altri suoi
testi? Quale linea di continuità, invece, porta avanti ?
Sconfitti è un testo differente dalle altre mie opere per l’assenza intrinseca quasi totale di azioni. E’ un perpetuo dialogo, anche silenzioso, senza fattori esogeni: si sviluppa tutto dentro, all’interno della coppia e in essa cerca soluzione. E’ in questo che si sviscera la mia continuità comunicativa: sono alla costante ricerca, a volte fortunata, a volte no, di una realtà espressiva del personaggio che diventa vivo, vero e non comunicativo.
Com'è avvenuto il suo primo approccio al teatro? Racconti...
La mia ricerca ossessiva è iniziata sin dal mio primo approccio al teatro, quando alle elementari ci portarono a vedere Peter Pan. Un pessimo Peter Pan. E mi chiedevo: perché Capitan Uncino, durante un duello, dovrebbe voltarsi a parlare con noi? Non rischia, forse, di perdere anche l’altra mano? Da lì, la voglia, l’ossessione, di portare realtà sul luogo di finzione per eccellenza. Sforzo che richiedo anche ai miei attori.
Quando si scrive un testo nuovo può capitare che i volti dei personaggi
prendano man mano la fisionomia di attrici e attori precisi? È in questo
caso?
Cerco sempre, in fase di scrittura, di ispirarmi a chi conosco, per poterlo poi portare al limite della totale immersione fisica, emotiva ed espressiva col suo personaggio. Anche in questo caso, soprattutto riguardante il protagonista maschile, Daniele Locci, sono ben conscio delle sue potenzialità. Lo conosco da anni, ed è stato facile per me cercare di non far uscire fuori i suoi pochi difetti, ricercando una scomodità in cui un attore deve sapersi trovare un luogo morbido su cui adagiarsi.
È successo anche che un incontro casuale abbia messo in moto l'ispirazione e la
scrittura?
C’è stato un solo caso, una folgorazione, diciamo: Ho visto un’attrice, in scena, fare il gesto di stringersi nelle spalle. Da lì ho avuto un’idea per un monologo, poi sviluppatosi in spettacolo. E in cui l’ho voluta fortemente come protagonista. Spettacolo poi diretto da un regista esterno, ma a cui ho imposto una sola condizione: lei. Fortunatamente ha accettato. Per tutto il resto, ho dato carta bianca, pur soffrendo.
Per un autore teatrale qual è il più grande timore quando la regia è firmata da
un'altra persona? Al contrario, dirigere e mettere in scena potrebbe comportare anche dei
limiti? Mettendo in scena "Sconfitti", ha colto lei stesso delle sfumature
nel testo che Le erano sfuggite durante la scrittura?
E’ tremendo scrivere e poi vedere in scena cose differenti dal tuo pensato, dal tuo legame per i personaggi. In questa paura ho deciso di affinare la mia regia, per non trovarmi di fronte a malintesi: Il prodotto finale, buono o scarso, è mio. Forse un problema con la fiducia, o le responsabilità, credo. Ed è il grande limite di scrivere e dirigere: non hai mai qualcuno che ti dice se stai andando al contrario. E’ come andare in una nuova città, affittare una macchina e guidare senza navigatore cercando il mare. Il terrore costante di avere sbagliato tutto ti attanaglia fino a un’ora prima del debutto. Per poi soccombere ad essa durante le repliche. Nel caso di Sconfitti, ad esempio, le racconto un aneddoto: durante la penultima rappresentazione, mentre guardavo il finale, ho pensato:” Ma è tutto sbagliato, dovrebbe fare questo, dire quest’altro!”. Purtroppo l’attore per motivi suoi non era granché entusiasta di cambiare il lavoro fatto da mesi tra una replica e l’altra, un’ora prima dell’ultima… Va a capire perché. Ma giuro di averlo riscritto, appena tornato a casa. Era un tarlo, che bussava. Fortissimo. Durante tutti i complimenti, mi attanagliava il pensiero:” Sì, ma ho sbagliato il finale”. Ma il teatro è così, un treno con vagoni infiniti di ultime volte, irripetibili, passate. Non si può dire STOP, rifacciamo. Non c’è un vetro, una rete di protezione. E’ un lancio, tutti i giorni, con il paracadute ed una zona di atterraggio molto circoscritta.
D'accordo con la seguente affermazione di Marcel Achard "Al cinema, si
recita; al teatro, è recitare.”?
L’affermazione del Achard, da lei citata, riassume proprio questo: un attore, se vuole fare sul serio, deve salire sul legno.
Il suo aforisma preferito sul teatro... o uno suo personale...
E ssere, non fare. Come ripeto sempre ai miei attori, dopo il “chi è di scena”, dopo aver spento tutto, entro e gli ripeto: siete, non fate. Essere. La mia personale interpretazione del monologo del Bardo. In questo, in tutta questa voglia di non scimmiottare, di non piangere ma far piangere, di non ridere ma far ridere, prendo tutto da Gigi Proietti.
Degli attori del passato vorrebbe lui come protagonista di un suo
spettacolo?
Ricordo quella vecchia cassetta, registrata a mano da mio papà, di “A me gli occhi please”, a Roma. Volevo vedere solo quella. Mi faceva impazzire come facesse personaggi così seri e la gente ridesse così tanto. Ecco, avessi il genio della lampada teatrale davanti, gli chiederei di fare uno spettacolo con me. Che tanto, Gigi, il Genio lo ha doppiato lui. Che poi, cosa gli fai fare a Gigi Proietti? Sarebbe quella la domanda. Al migliore, il testo migliore che esista.
Il miglior testo teatrale in assoluto qual è per lei?
Q ui, per una volta, mi tocca fare un passo indietro. Come si può eleggere un miglior testo? Esistono forse migliori espressioni di, migliori scene di, ma nel complesso, un autore scrive quel che sente. Ed è sempre il migliore, per lui. Sono sicuro che in un ipotetico braccio di ferro tra, che so, Pirandello e Cechov, si guarderebbero e si stringerebbero le mani (ma io avrei tifato per il russo, ecco, lo confesso!).
La migliore critica che vorrebbe ricevere?
Rifuggo dalla meritocrazia performante anche nell’arte, dare un voto al testo, una valutazione alla regia. E’ il complesso che dovrebbe emozionare. Ed è questo che ricerco, alla fine, stremato, quando vago tra il pubblico a sentire brandelli di commenti. Uno che dica di essersi emozionato. Il teatro è del pubblico, molto più del cinema, della televisione. E’ l’intrattenimento più immediato, più antico. Perché dovrebbe smuovere emozioni. E io voglio smuovere. Svegliare. Che sia su un tema, o su un’emozione, o su un atteggiamento. Voglio che il mio pubblico sia scomodo all’uscita. Come i miei attori. Come me, in regia, a mordermi il braccio. Il sinistro, sempre.
La peggiore critica che non vorrebbe mai ricevere?
Una fatica riassunta in un’unica paura, quella di non sentirmi dire, alla fine: "carino”. Un dolore enorme, ad ogni “carino”, uno squarcio. E come lo spiego? Il “carino” è un’offesa alla mia persona. Di più. E’ un’offesa ai miei valori. Ora sapete come farmi disperare, vi ho armati per bene. Sono indifeso. Proprio come i miei attori nella scena madre di Sconfitti.
C'è un passaggio, una scena che potrebbe sintetizzare in sé l'essenza e il
significato di "Sconfitti"?
Sottofondo di Mina con "Mi sei scoppiato dentro il cuore”. Loro pieni di rabbia. Che scivola via come crema solare in acqua salata, appena c’è contatto fisico. Due bestie che si ammaestrano a vicenda schioccando baci e urlandosi amore, zitti. E no, non c’è proprio nulla di carino. Ve lo garantisco. Giovanni Zambito.