NOVE, la Senatrice a vita LILIANA SEGRE a CHE TEMPO CHE FA: ‘Quello che volevo lasciare di me di bello, di morale, di interessante era la Commissione contro l’incitamento all’odio’; su quello che sta succedendo oggi in Israele e in Palestina, ‘È qualcosa che ti porta a un tempo lontano, che io credevo non avrei vissuto più, che la vita mi aveva portato false speranze’; ‘Ho usato la parola mitezza in Senato all’apertura della nuova legislatura, dove si sentiva tanto odio e tanta antipatia aleggiare in quelle sacre mura’, ‘Oggi è molto difficile non avere paura, però è più forte di me, io voglio essere libera e non avere paura, questa è l’eredità morale che lascio ai miei figli e ai miei nipoti’.
“Ho ascoltato prima di entrare quelli che hanno parlato e in particolare David Grossman che conoscevo già ma che ha trovato delle parole straordinarie in cui c’è l’incubo, l’amarezza del momento, il terrore del futuro, tutto quello che un israeliano poeta della pace come lui può dire, uno che ha perso un figlio, che conosce il mondo in cui vive, con le cose tragiche, con le delusioni, le speranze”. Così la Senatrice a vita Liliana Segre a Che tempo che fa sul NOVE.
“Quando mi hai invitato a venire qua, tutto questo era inimmaginabile, perché parliamo di uno, due mesi fa; di una cosa sono rimasta sempre fissata che volevo dire in trasmissione: io che da vecchia, ora adesso sono vecchissima, ma ero già molto vecchia quando sono entrata in Senato, ho subito pensato che quello che volevo lasciare di me di bello, di morale, di interessante, era quella commissione di cui io sono Presidente, che per fortuna è stata rinnovata anche nella nuova legislatura, contro l’incitamento all’odio. Se una commissione parte con questo principio e ascolta tutte le voci che si palesano poi per partecipare come audizioni alla commissione, uno si chiede se è un’utopia, un sogno, quando ti capita di essere viva e di vedere, sentire anche cinque minuti fa quello che sta accadendo in quel mondo, in cui ti auspichi che non ci sia l’incitamento all’odio. Allora è tutto inutile, quelle utopie che si sono presentate negli anni (…), allora altro che incubo, delusione, disperazione. Che speranze ci sono per una nonna come sono io dopo aver visto quello che è successo a bambini colpevoli solo di esser nati? È qualcosa che ti porta a un tempo lontano, che io credevo non avrei vissuto più, che la vita mi aveva portato false speranze”.
Su cosa alimenta l’odio. “Io lo vorrei capire fino in fondo, probabilmente non sono abbastanza dentro le cose, sono nata a Milano e ho sempre vissuto qui, arrivare a quell’odio di questi giorni da ambo le parti, lo trovo veramente una cosa terribile, che non mi fa dormire, sentendomi così incapace, impossibilitata a fare nulla per nessuno. Non ho una risposta, perché sono una donna di pace”.
Sul percepire il dolore altrui e il sentimento della compassione. “C’è una scelta di odio e di vendetta, io l’ho fatta prestissimo questa scelta, non potevo essere come i miei assassini. Ho letto oggi una poesia di un poeta americano, Foster; lui prega, ha la fortuna di chi è religioso di pregare e questa persona scrive così bene che ognuno è un altro uomo, questo dovrebbe impedire di uccidere l’altro. In questa giornata di incubo, di vuoto, di attesa di quello che può succedere e può essere addirittura peggio di quello che già è, è bellissima questa poesia in cui si prega, in cui c’è uomo contro uomo, bambino contro bambino, ognuno ritrovi l’essenza di sé”.
Sulla parola mitezza. “Mitezza è una parola non solo non usata più da nessuno ma che risale a quando io ero piccola, quando ero nervosa, maleducata, capricciosa e qualcuno mi esortava a essere miti. Essere mite già allora mi suonava strano, da vecchia, con quello che mi è capitato nella vita, questa parola mi è sembrata avvolta dalla bellezza della mia infanzia, da un mondo che non c’è più e ho avuto il coraggio in Senato all’apertura della nuova legislatura, dove si sentiva tanto odio e tanta antipatia aleggiare in quelle sacre mure, ho usata la parola mitezza forse come una favoletta o un rimprovero. Purtroppo sono scettica, parole al vento... Mitezza, già era una parola sconosciuta, arcaica, ma talmente lontana da questi tempi che io stessa, dopo che mi è uscita, mi son detta ma cosa mi è venuto in mente? La democrazia è dove c’è rispetto per l’altro, dove l’articolo 3 della Costituzione sancisce il diritto dell’altro, è estremamente importante. Mitezza è un po’ un pesce fuor d’acqua”.
Sull’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, domani, 16 settembre, avvenuto nel 1943. “Non solo verrei ricordarlo, io allora non sapevo niente di questo, ero nascosta da generosi amici, ma neanche quando fui al lager conobbi nessun romano che era sfuggito; poi ho conosciuto una ragazza romana, Graziella Coen, che mi raccontò com’erano andare le cose; la cosa più strana è che i miei nonni materni erano a Roma ma i tedeschi che avevano l’elenco di chi portare al collegio militare, non avevano il nome dei miei nonni, i quali si salvarono pur essendo stati il 16 ottobre nella situazione di essere presi e rastrellati e poi morire, come capitato a tutti i vecchi. Io avevo 13 anni, si può essere già delle donnine, io invece ero una ragazzina molto sciocca, molto ingenua, molto legata alla mia famiglia, stavo a sentire loro cosa mi dicevano di fare. Io mi ricordo quelle giornate, quelle notti, io ero attaccata alla radio dei vicini, ascoltavo le notizie e le riportavo ai miei che si disperavano, e avevano ragione di disperarsi ma io non avevo capito; io ho sempre chiesto scusa agli eredi di quelli che mi tenevano nascosta, rischiando la vita; io non ero un’ospite grata, ero così seccata di non essere coi miei, fuori posto, in una famiglia non mia, che avevo il coraggio di essere una ragazzina col muso, di cattivo umore, poi mi ci è voluta la vita per chiedere scusa. Ero veramente una ragazza egoista, maleducata, che voleva stare con la mia famiglia, forse era meglio, visto che poi non li ho mai più visti”.
Sulla mostra “La memoria degli oggetti” alla Memoria della Shoah di Milano con gli oggetti di migranti deceduti durante il naufragio di Lampedusa di 10 anni fa. “(Posso capire) chi ha provato a lasciare la casa e gli oggetti della vita di tutti i giorni, un letto, un cuscino, una coperta, una poltrona, e non rivederli più. Gli oggetti di Lampedusa hanno una voce fortissima che grida, perché chi li ha lasciati ha lasciato il mondo, il suo mondo, per cercare la libertà, un lavoro, una situazione che li aiutasse a sopravvivere. Un oggetto lasciato per la strada riparla di un mondo perduto; io quegli oggetti non li ho trovati mai più, ho dovuto essere forte, me stessa, una donna di pace, che non odiava, che non usava mai la parola odio o vendetta e così morirò, non posso essere diversa da me (…). Oggi è molto difficile non avere paura, però è più forte di me, io voglio essere libera e non avere paura, questa è l’eredità morale che lascio ai miei figli e ai miei nipoti”.