La società della separazione tra uomo, mistero e natura è caratterizzata da una
perfida uniformità, insegna l’arte di fare a meno dell’arte. Alla degradazione
delle pratiche ideali corrisponde un’estensione del campo prescrittivo. È
inutile adoperarsi per un mondo migliore, se il mondo migliore è
somministrato dagli altri. Basta credere, al limite adeguarsi. Le buone
maniere trasmettono il valore della rinuncia ai valori. L’acquisizione dei
diritti nasconde la pianificazione del desiderio, produce l’incapacità di
riconoscere l’occasione della rivolta. La pedagogia, con la scusa di educare
alla prudenza, imbottisce l’infanzia di paure. Il fondamento del viaggio sta
nello sguardo itinerante. Fermarsi per chiedere permesso significa delegare al
potere il giudizio, divenire gente vigliacca. La vita permalosa movimenta il
nulla: offesa dalla verità, la aggiorna a immagine e somiglianza dell’ultimo
partito. Riprogrammare l’esistente e correggere l’umanità sono gli scopi della
tecnologia: sviluppa protesi che rendono invalidi i viventi, organizza una
festa, dittatura a sorpresa in cui le cose esprimono tutte la stessa tesi.
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La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia
dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le
configurazioni fenomeniche degli edifici sono figure della possibilità. La
costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il
parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un
ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia
dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la
narratologia, l’ingegneria delle identità migranti.
La città è di Dio o dell’uomo, spiega Agostino d’Ippona nel De civitate Dei.
Oggi quella dell’uomo è diventata la città della macchina. Ricoperta da
materiali morti, nulla sopravvive al ritmo insostenibile che impone. La grazia
è assente, metabolizzata dalla quantità insieme all’individuo in difetto.
Chiedere diritti alla tecnocrazia significa ignorare che la macchina conosce
solo compiti e funzioni. Nessuna città dell’uomo è capace di rovesciare la
città della macchina, ne ha la forza ciò che, dentro l’uomo, abita la città di
Dio, il dritto e il rovescio della stoffa edenica: speranza e nostalgia.
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L’ossessione per i vecchi fascismi, morti e sepolti, è il sintomo di una cecità
isterica, evitamento per cui la visione dei totalitarismi aggiornati è elusa a
favore di innocui fantasmi da camera. Il soggetto, reso inabile a colpi di miti
consigli, si contenta del suo essere solidale, fluido, socialmente utile, a
dispetto di ogni ontologia della libertà o delle contestazioni innaffiate di
sangue dei bei tempi andati: rispettare le regole è diventato più importante
che fare la cosa giusta. Il sostanzialismo, l’idea di una sostanza che permane
malgrado le variazioni esteriori, è screditato. Il tempo passa, e passa anche
l’uomo, senza un nocciolo somigliante a Dio o a sé stesso. Solo un uomo con
in sé la sostanza insopprimibile della libertà vede una dittatura. I regimi
riscrivono l’uomo affinché sia a disposizione del potere. Per vedere il
dataismo bisogna essere uomini. Se gli uomini sono ridotti a un fascio di dati,
una soggettività sintetica all’inseguimento della meta informatica del mondo,
la libertà diviene un errore di sistema.
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Gli uomini chiedono alla Madonna di abortire Dio. In caso contrario faranno
a pezzi il bambino. Lei si rifiuta. Mani ostili attraversano impazienti la cervice
e rovistano nell’utero stracciando il feto. Dio è lì, spappolato con la placenta
sul pavimento. Le schiere celesti si sfaldano.
Rimangono la macchina e il governo.
La macchina, per l’uomo, è un fare a meno di fare. L’uomo, per la macchina,
è qualcosa di cui fare a meno. Lo scopo del governo è mettere in sicurezza gli
uomini: per tenerli al sicuro li imprigiona, poi fa sì che muoiano, perché da
morti non possono più morire lentamente come facevano ogni giorno. Nulla
di pericoloso accade a uomini esonerati dalla vita.
Nella città della macchina le operazioni sono compiute sotto l’imperativo
governativo della logica securitaria: decreta, per il bene dell’uomo, la sua
fine. Non importa che l’uomo sia vivo. Importa che sia al sicuro, morto. Chi
prima muore, più a lungo è salvo.
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Nella città della macchina si parla la lingua della macchina. La lingua degli
uomini, inferiore e volgare, è vietata nelle scuole. I bambini, con la bocca
cucita perché la macchina respinge gli schiamazzi, imparano a leggere il
codice, riprodurre un’intelligenza artificiale, così la macchina può
comprenderli e rispondere, dare ordini. La formazione colma la distanza tra
lingua della vita e lingua della macchina, schiacciando l’espressione della
prima sulla computazione della seconda, una domesticazione informatica del
vivente. L’infanzia, posta di fronte all’algoritmo, prova un imbarazzo di carne
per la propria inadeguatezza: sul lungo periodo diventa antiquata e destinata
alla discarica, insieme ai disobbedienti e alle parole dei poeti. Le ombre
proiettate dai sordomuti cadono dai muri in silenzio. Ciò che si deve gridare,
qui si deve tacere.
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Il codice è una versione secolarizzata della redenzione. Gli uomini, smarrito
il senso di realtà, si difendono dalla realtà medesima con una stringa di
numeri, un tentativo di paradiso in terra, porte aperte allo Stato poliziesco.
Stretto in un recinto di dati, l’uomo è sfigurato. Una pioggia di bit, incessante
e poderosa, ne cancella i lineamenti. Nei server soffia una bufera.
L’architettura dei calcolatori esprime una disabitudine ai viventi. La carne è
impegnata in sequenze di azioni che sono strutture di controllo. L’anima
domanda se l’individuo digitalizzato appartenga alla sua specie o sia un essere
abietto. Relazionarsi all’uomo come dato significa smettere di riconoscere
l’altro quale uomo, dare le spalle a Cristo e rinunciare al viaggio. Gli algoritmi
fissano le traiettorie, si sono impadroniti degli spostamenti. L’avventura nel
metaverso manca di scarti spaziotemporali e ontologici, luoghi santi. È il nonviaggio del corpo connesso, un intrattenimento sedentario, l’esclusione del
viaggio con Dio da parte della geografia computazionale.
Idolo Hoxhvogli, La comunità dei viventi, Clinamen, Firenze 2023.
Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. Vive a Porto San Giorgio, nelle
Marche. Ha studiato filosofia alla Cattolica di Milano e all’Università di
Macerata. I suoi lavori sono presenti in numerose riviste, tra cui «Gradiva»
e «Cuadernos de Filología Italiana». Ha scritto due libri: Introduzione al
mondo e La comunità dei viventi.