di Franco Presicci
Va dove lo
porta il cuore (parafrasando il titolo di un libro di successo di Susanna
Tamaro). E il cuore questa volta lo ha portato a Napoli. Era da tempo che Carmine
La Fratta, tarantino delle cozze, fotografo errante e virtuoso, ci voleva
andare; poi per una catena di appuntamenti aveva dovuto rimandare. Adesso no,
ha chiuso il libretto degli impegni e si è deciso. Lui corre sempre sul teatro
di un evento importante, in un luogo che ha una storia, un paesaggio da offrire,
da personaggi che hanno qualcosa di interessante da raccontare. Ha lo spirito
del cronista.
“Vado sotto il Vesuvio”, mi ha detto per
telefono. “Sulle tracce di Maradona?”.
“Non solo: da quelle parti ogni scatto è
prezioso”. Come dargli torto? L’incanto di questa città variopinta rapisce
residenti e turisti, da qualunque parte arrivino. Immaginavo che lui non si
sarebbe limitato a puntare l’obiettivo sulle facciate con il volto e le
espressioni del calciatore che in campo disegnava geometrie esaltanti, compiva
acrobazie ardite, dava pedate così forti da sfondare la rete, scatenando i
tifosi.
Giunto a
Napoli, Carmine La Fratta si è infilato
nel reticolo di vicoli, dove ancora palpita il ricordo dei grandi della scena: Totò, Eduardo De Filippo. Al ritorno mi
ha chiamato nuovamente, entusiasta: “Ho cliccato, estasiato, sulle case del
principe Antonio De Curtis e di Eduardo De Filippo, una a due passi dall’altra.
Ho avuto la sensazione che non siano scomparsi del tutto, questi miti. Ma che
siano ancora lì, tra mattoni rosicchiati e bandiere, bancarelle e negozi, tra
la gente, dentro la gente. Respirano, in quei budelli, sono immortali nella
memoria degli abitanti. Se tu qui fai domande su uno o su l’altro, cominciano a
parlare e non riesci più a fermarli. Chi li ha visti da vicino snocciola
chicche, battute, episodi particolari, comportamenti. Come quella riferita da Edmondo Capecelatro, scrittore
partenopeo affermato, oltre che attore: una signora incontrò Totò in un
salotto, e vedendolo molto serio, inappuntabile, gli disse. “L’ho applaudita a
teatro, dove provocava risate a crepapelle; qui è quasi schivo”. Risposta: “Lei
a teatro ha visto Totò, adesso è di fronte al principe De Curtis”.
Carmine è stato al rione Sanità, il
vicolo nativo del grande attore comico, che proprio qui fece le sue prime
esibizioni da ragazzino, avendo come spettatori i parenti, la gente dei bassi,
gli scugnizzi, qualche estraneo. Poi affrontò la prima volta la ribalta, al
teatro “Quattro Fontane” di Roma. All’Hotel
Plaza incontrò l’autorevole giornalista Gaetano
Afeltra e gli chiese: “Zavattini verrà una sera a teatro? Mi piacerebbe
conoscerlo”. Non sapeva che Zavattini
ci andava tutte le sere, e batteva le mani freneticamente. In seguito passò di
palcoscenico in palcoscenico, sempre più in alto, sempre più applaudito,
celebrato. Un’icona.
Carmine è
entrato nei vicoli come in una chiesa: tale è considerato anche quello, a due
passi, in cui visse Eduardo. Li
imbocchi, questi contenitori di umanità, e non puoi non pensare a “Natale in casa Cupiello”, “Filumena Marturano”, “Il sindaco del Rione Sanità”, “Non ti pago”, divertentissima commedia che
ha come tema il lotto, evocato dal vico Bonafficiata Vecchia, antico nome del
gioco, creato non a Napoli, come si
pensa, ma a Genova, da un barbiere,
pare. Figura onnipresente del botteghino, l’assistito, personaggio ricercato e
odiato quando non azzecca i numeri, inconveniente che gli capita spesso, come
nel libro di Luciano De Crescenzo, “Così parlò Bellavista”. Sicuramente
tutto questo scenario di commedie, di storie, di vita vissuta, di monelli di
strada, di riffe, di voci è riemerso anche dai ricordi di Carmine La Fratta, tra uno scatto e l’altro, una conversazione e
l’altra, camminando per ore intere tra vicoli, strettoie, balconi con i bucati
appesi alle ringhiere, budelli descritti in tante pagine letterarie. Il
pensiero di Carmine è andato sicuramente a quella splendida poesia, “’A livella”, e alla canzone “Malafemmena”, entrambe di Totò, e ai
versi di Eduardo.
Carmine non ha visitato soltanto i vicoli, dove emerge anche il nome di Matilde Serao, la giornalista
scrittrice che con il marito Edoardo
Scarfoglio nel 1892 fondò “Il Mattino”, dove la signora arrivava tutte i
giorni in carrozza. Carmine non poteva per esempio non andare nei vicoli di San Gregorio Armeno, dove si fabbricano
i presepi più belli al mondo (alcuni esemplari si trovano anche nel Museo di
Dalmine e in tantissime collezioni private). Questi presepisti hanno
larghissima fama per la finezza, la bellezza, la cura delle facce, del
vestiario delle loro statuine e per le loro architetture sacre, stupende:
paesaggi dotati di magia, di profondità suggestive. Carmine ha fatto capolino nelle
botteghe, ha ammirato i lavori, ha fatto commenti con gli artisti, ha
fotografato tutto ciò che lo colpiva. Ho visto quelle foto, me ne ha mandate
una settantina: foto magistrali, fanno vivere l’atmosfera dei luoghi.
Dopo qualche
giorno l’ho richiamato per chiedere altri particolari. Era già ripartito. Non
si ferma mai, Carmine. Ama scoprire aspetti nuovi, perle, collettività in festa.
Un giorno è impegnato a fotografare i falò e i fuochi d’artificio alla festa
patronale di San Marzano di San Giuseppe, un altro nella sua Taranto davanti alle barche che
dondolano con la ninna-nanna del Mar Piccolo, magnificato da poeti mai
dimenticati. Lo pensi alla festa di San
Cataldo, protettore della città dei due mari, o in corso Umberto, nel Museo
archeologico nazionale, a riprendere gli ori di Taranto, e invece è a Crispiano a cogliere luci e colori, la
folla, la cassarmonica delle celebrazioni della Madonna della Neve o a Milano a sorprendere i colombi in
piazza del Duomo e a riprendere i merletti delle guglie della Cattedrale.
Carmine è abituato a macinare
chilometri anche nella Bimare: lasciato il ponte girevole, va a destra,
smaltisce la discesa del Vasto e costeggia “’u màre peccerìdde”, dove dalle
paranze sbarca il pesce destinato ai mercati. Vedo e rivedo le sue foto anche
per sentirmi vicino alla mia “culla”. Foto di natanti, scafi, lampàre, che catturano
il pesce di notte, la porta ormai chiusa di “Cicce ‘u gnùre”, noto venditore di
mitili, la dogana, le facciate delle case, screpolate come le labbra dei vecchi
pescatori, la chiesa di San Domenico, la via Di Mezzo, i Misteri, la
processione dell’Addolorata, la ringhiera con affaccio su Mar Grande, il Castello
Aragonese, il canale navigabile che sposa le due distese d’acqua. Tutte
immagini raccolte nei suoi libri senza didascalie, perché, dice, questi
“ritratti” non hanno bisogno di essere spiegati.
Mi piace seguire
idealmente questo cacciatore di immagini, capace di attendere ore e ore per
poter cogliere tutto lo splendore di un panorama. Non gli ho chiesto dove sia
andato a cacciare questa volta. Aveva fretta di mettersi al voltante. Ma vedrò
i risultati. Intanto osservo i
“quadretti” dei vicoli napoletani, dove restano anche le tracce di Giuseppe Marotta, giornalista,
scrittore, critico cinematografico severo, sceneggiatore, paroliere, autore di
“Mal di Galleria”, “Pietre e nuvole”, “L’oro di Napoli”, “San
Gennaro non dice mai di no”… Si trasferì giovanissimo nel capoluogo
lombardo, dove scrisse per il settimanale della Rizzoli “L’Europeo” e nel ’54 ricevette
il Premio Bagutta per il romanzo “Coraggio, guardiamo”. Non trascurò mai
la sua Napoli, non dimenticò le sue radici, forti, bene aggrappate alla terra.
Carmine La Fratta è tornato, appagato,
arricchito dal suo pellegrinaggio napoletano tra vicoli, murales di Maradona dappertutto (anche sulle
carrozzine dei bambini) e luoghi storici come il San Ferdinando, il teatro che,
eretto alla fine del Settecento, fu tanto caro a Eduardo De Filippo; e vico dei Carbonari, in cui emise il suo primo
vagito, a Forcella, Nino Taranto,
eccellente in “Pensaci Giacomino”,
fiammante in “Ciccio Formaggio”, con
la paglietta a tre punte. So che ci tornerà. I vicoli di Napoli, attraversati
anche da Curzio Malaparte, se li è
portati nel cuore.